“The Stranglers. Uomini in nero” di Stefano Gilardino, che esce nella collana Uragani di Tsunami, analizza uno dei gruppi più fuori dagli schemi della storia del rock. Nati nel 1974, gli Stranglers hanno anticipato (e contribuito a inventare) la rivoluzione punk rock britannica, ma pur vivendo la stessa congerie culturale dei Damned, dei Clash o dei Sex Pistols, i quattro «meninblack» sono sempre riusciti a sfuggire a qualsiasi etichetta, evitando di conformarsi a qualsiasi idea precostituita. Stefano Gilardino ci ha spiegato come ci sono riusciti.
Assimilati al punk e alla new wave più per motivi temporali che per una stretta attinenza musicale, gli Stranglers hanno pochissimi padri e uguali eredi, magari, proprio per quell’attitudine a sparigliare le carte che è diventata nel tempo una loro costante… Possiamo parlarne?
Stefano Gilardino: Sono piuttosto d’accordo con te, sia sui padri che sui figli. Gli Stranglers rappresentano da anni un oggetto unico nel panorama rock mondiale, con pochi termini di paragone. Sono stati definiti in decine di modi, ma inevitabilmente assomigliano sempre e solo a se stessi: troppo vecchi per il punk, vestiti in modo differente, troppo sperimentali per la new wave, troppo violenti per il pop… sono sempre stati “troppo”, in qualche modo, e la loro natura aggressiva e scostante non li ha di fatto aiutati a mettere le radici in qualche scena ben definita. Meglio così, in verità, visto che proprio grazie a questo stile indefinibile sono diventati dei classici.
La narrativa, non soltanto a livello di testi, legata agli Stranglers ha a che fare con i misteri che si celano nel mondo, con gli ufo, l’occultismo, i men in black… Pensi che questo mood “cospirazionista”, che ha molto di visivo-cinematografico, possa aver contribuito a renderli, a loro volta, un oggetto non identificato?
S. G.: Non penso sia soltanto merito dei loro testi, per quanto siano sempre stati di livello nettamente superiore a quelli di quasi tutti i loro contemporanei. La quantità di temi esplorata nel corso degli album – oltre a quelli citati da te, che sono estremamente classici del loro repertorio, bisogna aggiungere cannibalismo, genetica, politica internazionale, razzismo, violenza, sesso e molto altro – è davvero varia e ha contribuito al pari della musica a renderli delle mosche bianche (o forse nere sarebbe meglio…) del panorama internazionale.
Il libro che pubblichi con Tsunami aggiunge all’aspetto analitico un’ampia selezione di interviste e materiali redazionali d’epoca. Come hai lavorato all’organizzazione della forma del testo?
S. G.: Era la prima volta che mi cimentavo con una biografia vera e propria, i miei altri libri erano sempre stati dedicati a storie collettive, tra rock, punk e post-punk. Quindi ho cercato di organizzarmi in maniera piuttosto maniacale prima di iniziare a scrivere, per evitare guai successivi. Quindi ho recuperato, nella maggior parte dei casi, tutto il materiale disponibile, selezionando quello che mi sarebbe servito per raccontare la storia, dopodiché sono partito in stretto ordine cronologico, comprese le lunghe recensioni dei dischi. Ne ho approfittato anche per risentire album che magari non ascoltavo da un po’ di tempo, come quelli più recenti e della formazione a cinque. A conti fatti, è stato meno difficile del previsto.
Parliamo della ricerca di libertà che ha caratterizzato il percorso del gruppo, soprattutto in relazione alle etichette discografiche, e agli scontri anche cruenti con i giornalisti…
S. G.: Bisognerebbe chiederlo soprattutto a loro, ma immagino che fosse una condizione non negoziabile, quella della libertà artistica ed espressiva. Hanno bruciato parecchi ponti per mantenersi ligi alle proprie posizioni e certo non hanno mai avuto grande simpatia per la carta stampata, ricambiati in tutto e per tutto. Come mi raccontava JJ Burnel: “Dopo il successo di ‘Golden Brown’ ci hanno chiesto un altro singolo di successo. Gli abbiamo dato ‘La Folie’, un brano in francese, lento, di sette minuti e che racconta una storia vera di cannibalismo. Poi li abbiamo mandati affanculo!”.
Quali sono gli album fondamentali per conoscere la loro musica (e relativi cambi di rotta) in una carriera che si avvicina al quarantaseiesimo anno?
S. G.: Si avvicina al cinquantesimo, in verità, perché hanno cominciato ufficialmente nel 1974! Difficile fare una scelta, ma te ne dico almeno quattro, consapevole che, visti i frequenti cambi di rotta, ce ne vorrebbero molti di più: “Rattus Norvegicus” (1977), perché è iniziato tutto con quello, “Black & White” (1978), perché è il mio preferito, “The Gospel According to the Meninblack” (1981), perché è il loro disco maledetto, e “Dark matters” (2021), perché dimostra quanto ancora siano attuali e in forma.