Appena arriva il 2018 prepariamoci a un assalto di celebrazioni, romanzi, saggi, dibattiti e ricordi per il cinquantenario del ’68. Li ha preceduti tutti Paolo Brogi, che a Pisa aveva partecipato ai moti studenteschi per poi diventare scrittore e giornalista. Con il suo volume fresco di stampa “C’est n’est qu’un début. Cronache di un mondo in rivolta”, presentato a Roma in un’aula super affollata alla Sapienza, è stato capace di radunare un impressionante numero di “reduci”, protagonisti di quel mondo che i giovani conoscono poco o nulla.
Ha preso per primo la parola un professore emerito di economia, Enrico Pugliese, allora poco più che ventenne, per affermare che il vento di quei tempi non si è dissolto, anzi è più che mai presente. Dopo di lui è stata la volta di Corradino Mineo che nel ’68 aveva diciott’anni e aveva lasciato la Sicilia per respirare il nuovo mondo, portandolo a scrivere per “il Manifesto” di Luigi Pintor. Oggi, dopo aver diretto Rai News 24, è fuggito dal Pd renziano verso Sinistra Ecologia e Libertà. Mi ha fatto impressione vedere Paolo Remundo ancora capellone e con il pizzo del mitico Ho Chi Minh, l’eroe del Vietnam. Allora era il leader degli “Uccelli”, il gruppo situazionista divenuto famoso per essersi presentato a casa di Alberto Moravia starnazzando e vuotandogli il frigorifero. Per lui il ’68 è stato un’esplosione di emozioni: ne ricorda la volontà di socializzare, viaggiare, immaginare. Paola Speranza ha raccontato gli scontri con la polizia il primo marzo a Valle Giulia, quando è diventata un’icona del movimento perché colpita in testa proprio dalla tromba del poliziotto che suonerà la carica. Tornata ferita a casa, dovrà affrontare le ire del padre che la credeva a lezione.
Ricordare Valle Giulia, dove per un giorno il movimento studentesco credette di ripetere le gesta della Resistenza, significa fare i conti con la celebre poesia di Pasolini, “il Pci ai giovani”. È stato l’unico intellettuale a prendere le difese non degli studenti bensì dei poliziotti. Già l’incipit era provocatorio: “adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà… A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri”. Avevo conosciuto Pasolini perché mi aveva aiutato a distribuire il mio primo film, “Escalation”, uscito proprio in quei giorni e non ho potuto fare a meno di telefonargli per esprimergli tutto il mio dissenso. Oggi penso che avesse ragione lui e che a valle Giulia sia andato in scena un equivoco: non era in basso la polizia a dover essere contestata, ma in alto il potere politico di allora, la Democrazia cristiana e i suoi alleati.
Ricordando la rabbia studentesca, si è citato don Milani, che l’anno prima aveva scritto con i suoi studenti quella “Lettera a una professoressa”, subito diventata il manifesto culturale del ’68. Su don Milani, Lorenzo Tomasin, un filologo uscito in quei tempi dalla Normale di Pisa, si è permesso di dissentire rispetto alla vulgata che ha santificato il priore di Barbiana facendone suo malgrado un rivoluzionario. Com’è noto don Milani si era opposto alla scuola dei padroni, di cui la professoressa era l’emblema. Le cose stavano veramente così? Tomasin pensa di no e infatti ha scritto: “Io sto con la professoressa”. Non l’avesse mai fatto, ha ricevuto una bella dose di insulti. Il suo dissenso andrebbe invece ponderato, perché mettere in discussione don Milani servirebbe a capire non solo le luci, ma anche le ombre generate cinquant’anni fa da un movimento nato per irrorare un’ondata di libertà, ma presto catturato da scellerate ambizioni politiche, che l’hanno fatto degenerare in tragedia. Il giovane prete di Barbiana non se l’era presa solo con i professori, ma anche con gli “odiati laureati”, senza capire che costoro, come ha detto Tomasin “lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri faranno la coda per un posto da lavapiatti”. Non si può che essere d’accordo: molte idee di don Milani, fatte verbo dagli epigoni del movimento studentesco, hanno contribuito a sgretolare la scuola e l’università italiana, vedi l’idiota pretesa del trenta garantito a tutti, per cui ancora oggi ci sono studenti che per aver fatto un viaggio di piacere a Londra e visitato di sfuggita la National Gallery pretendono di vedersi assegnati i crediti equipollenti a un esame di storia dell’arte, magari pure con la lode.
Il ’68 non ha colpe, ma quello che è venuto dopo sì. Le idee più sane hanno portato alla ribalta la parità tra i sessi, hanno liberato l’ira delle donne, hanno messo in crisi le cattedre dei baroni, hanno pervaso il mondo dello spettacolo e della musica, insomma ci hanno nutrito di tante bellissime cose. Ma dopo sono arrivati i partitini, da Potere operaio a Lotta continua, anch’essi alimentati all’inizio da idee di giustizia e partecipazione. Poi però, pretendendo di parlare in nome di una classe operaia già in via di ridimensionamento, si sono spinti a sproloquiare. Ed è arrivato il terrorismo. Intanto gli studenti di allora neppure dieci anni dopo sono diventati direttori di giornali, dirigenti Rai, uomini di potere, anche banchieri. Del ’68 la maggior parte di loro ha dimenticato tutto, abiurando come sotto l’inquisizione. Per fortuna non tutti hanno fatto quella fine e il recente affollamento alla Sapienza ha dimostrato che non solo i giovani, ma anche molti anziani hanno ancora voglia di combattere. Di certo nessuno di loro tra Berlusconi e i 5 Stelle sceglierebbe Berlusconi. Peccato non sia più tra noi Pasolini. Avrebbe risposto da par suo a chi dichiara di optare per il sire di Arcore.
Roberto Faenza