Avete presente la sensazione di trovarvi seduti comodamente in poltrona e di assaporare con immenso piacere il film e lo svolgersi della storia che si svolge di fronte a voi? Non si tratta  del grande capolavoro che ormai sempre più raramente la produzione cinematografica riesce a proporci, ma, finalmente, nemmeno della dilagante stupidità (e volgarità) che invade costantemente il grande (e il piccolo) schermo.

Alla fine, terminata la visione di questi due film – quello francese di Philippe Claudel e l’argentino di  Sebastián Borensztein – possiamo alzarci dalla nostra poltrona accompagnati da un indefinibile senso di appagamento, grati per aver assistito per un paio d’ore a questo nuovo modo di fare cinema, nel quale si alternano ripetutamente momenti esilaranti e riflessioni sulla dimensione della vita e della morte, sui sentimenti dell’amore e dell’amicizia.

Tutto ciò senza mai cadere, come altrove facilmente avviene, nella banalità o nella sdolcinatezza. Tous les soleils e Un cuento chino, entrambi del 2011 e tradotti anche nei rispettivi titoli, come spesso accade, in maniera inappropriata –  il primo con Non ci posso credere, il secondo con Cosa piove dal cielo? – sono rispettivamente l’uno di nazionalità francese l’altro argentino; eppure hanno molto in comune.

Il film di Claudel, pur avendo avuto grande fortuna in Francia, non è mai stato distribuito in Italia; per coloro che lo vedranno o lo hanno già visto, le ragioni legate alla mancata distribuzione divengono immediatamente ovvie e lampanti. La storia si svolge nella bellissima Strasburgo; qui, vive Alessandro, interpretato da Stefano Accorsi, con il fratello Crampone (Neri Marcorè) e la figlia quindicenne di Alessandro, Irina (Lisa Cipriani).

Alessandro, che  è un professore italiano di musica barocca rimasto vedovo poco dopo la nascita della figlia, ha serie difficoltà nell’elaborazione del suo lutto e di conseguenza un rapporto difficile anche con la figlia che affronta l’esperienze della vita adolescenziale. Crampone, che si definisce “rifugiato politico” dopo che Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni nel ’94, si rifiuta di uscire di casa fino al giorno in cui “cadrà il tiranno”. Ha tentato ( invano! ) di resistere denunciando il presidente al tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, esercizio medico illegale, traviamento dei minori, genocidio intellettuale, etc, ma tuttavia vive perennemente in accappatoio e getta i soldi “sporchi”, che un magnate svizzero gli invia per i quadri che lui dipinge.

La scena in cui chiede rifugio politico ad una funzionaria francese, che gli risponde “ma l’Italia è una democrazia!”, è una tra le scene più divertenti, così come quella in cui gli amici gli confezionano, per scherzo, un quotidiano in cui si annuncia che Berlusconi si è ritirato in Paraguay. Alessandro, – appassionato studioso della tarantella – oltre ad insegnare, canta in un coro e passa molto tempo anche in un ospedale leggendo libri ai malati; è qui che incontra Agathe, un’anziana donna malata interpretata dall’elegante Anouk Aimée. Al funerale di Agathe, Alessandro ne conoscerà la figlia, Florence (una brava Clotilde Courau), e grazie a lei riuscirà a liberarsi dei fantasmi del passato.

Per essere apprezzato appieno, il film andrebbe visto nella versione originale, e cioè recitato in parte in francese e in parte in italiano, là dove alcune espressioni linguistiche rendono meglio il loro senso nell’una o nell’altra lingua. Le gag e lo spiccato senso dell’ironia rendono la pellicola piacevolissima e delicata alternandosi a scene intense che invitano a pensare: una piccola malata a cui fa visita, con l’animo del fanciullo e la coscienza della propria malattia, dà ad Alessandro una visione matura del mito di Orfeo ed Euridice. Mentre noi siamo convinti che coloro che abbiamo amato e muoiono impediscano alla nostra vita di andare avanti, la piccola malata spiega con grande naturalezza che sono invece i vivi ad avere difficoltà a lasciare andare coloro che muoiono, proprio in ragione di uno strano senso di colpa.

È Orfeo, il vivente, che per riavere la sua Euridice non avrebbe mai dovuto voltarsi all’indietro, venendo meno al patto,  la perde per sempre. Se a qualcuno è parsa sdolcinata la modalità con cui Alessandro, nella scena conclusiva, vede finalmente riunita la sua sfera affettiva e riesce a superare il dolore “aprendosi” alla vita, a noi pare, invece, che i toni smorzati e la delicatezza nel presentare vita e morte non siano qui mai né banali né tanto meno prevedibili.

Il film argentino Un cuento chino ha ricevuto il premio per il miglior film al Festival del Cinema di Roma del 2011. Anche qui le scene ironiche e divertenti non mancano, saldandosi ancora una volta ai temi più impegnati delle diversità culturali, dell’immigrazione, ai sentimenti dell’amicizia e dell’amore. In più, la caratteristica del film di Borensztein è quella di essere immerso in un’atmosfera dai toni fortemente onirici e surreali, particolari e insoliti.

È davvero un fatto inusuale che, in seguito ad un incidente, delle mucche russe fuoriescano da un aereo e si rovescino violentemente su di un’imbarcazione in Cina dove due fidanzati stanno per scambiarsi gli anelli, provocando la morte della donna. Per non parlare di Roberto che, a Buenos Aires, diffidente e solitario venditore di ferramenta, si diletta a ritagliare e conservare articoli di giornali di inusuali avvenimenti. E davvero – ancora una volta – inusuale che tra questi articoli ci sia proprio quello del fatto avvenuto in Cina! Così i due protagonisti vengono ad essere accomunati: Roberto infatti si ritrova a dare ospitalità proprio al cinese che ha perso la sua fidanzata per una coincidenza veramente sbalorditiva. È proprio questo incrociarsi di destini, questo riunire in cerchio un inizio e una fine delle storie dei due protagonisti, a regalarci un film così originale e ricercato.

Il personaggio di Roberto è quello di un uomo che, come capiremo alla fine, ha scelto la solitudine in conseguenza ad un fatto storico che ha riguardato tutta l’Argentina, la guerra delle Falkland, in cui lui, come molti altri giovani, si è ritrovato a combattere. Figlio di immigrati italiani, padre comunista, scappati in Argentina per sfuggire a loro volta dalla guerra, Roberto svolge metodicamente le sue giornate tra il negozio e la casa collegati tra loro; spegne ogni sera la luce allo scoccare delle 23, fa colazione ogni mattina con tè e mollica di pane e passa le giornate festive facendo pic-nic seduto fuori della sua auto e guardando gli aerei nei pressi dell’aeroporto. Ed è proprio qui che incontrerà Jun, appena arrivato dalla Cina; è il buon cuore di Roberto a spingerlo ad aiutare Jun a ritrovare il suo “tuapo”, lo zio, pur non capendo una sola parola di cinese e tentando, invano, di liberarsi più volte di lui. L’aiuto prestato a Jun lo porterà a ritrovare la propria vita. Per Roberto: la vita non ha senso, è assurdaper Jun: tutto ha un significato”.

Onorina Collaceto