In libreria per Pàtron, “Scienza e follia: stravaganza ed eccezione. Alchimisti, maghi, scienziati eslegi nella letteratura e nella cultura contemporanea” passa in rassegna le molteplici declinazioni letterarie dello scienziato irrazionale, eslege, estremo depositario di una conoscenza all’apparenza superiore, altra, comunicata con un linguaggio spesso incomprensibile. Ne abbiamo parlato con Silvia T. Zangrandi, Daniela Bombara, Ellen Patat, che hanno curato la pubblicazione, e Fabrizio Foni, autore di uno dei saggi.

“Scienza e follia: stravaganza ed eccezione” indaga la figura di uomini che partono dalla scienza per sconfinare in territori che poco hanno a che fare con la misurabilità e la replicabilità dell’esperimento, per usare una nota definizione. Parliamo della persistenza di questo topos letterario?

Daniela Bombara: Direi che si tratta di un tema antropologico e di un topos culturale, già radicato nel mito antico in diverse forme: la folle audacia di Prometeo, che osa donare agli uomini un sapere proibito, l’astuzia trasgressiva e beffarda di Hermes, ‘briccone divino’ secondo Kerenyi, dio dell’invenzione e svelatore di misteri oscuramente connesso all’aldilà, mostrano il potenziale di rischio, eccesso, stravaganza connesso a ogni forma di conoscenza che non intenda assoggettarsi a norme sociali precise e a rigorosi controlli. La sapienza può donare una visione armonica e razionale dell’universo, oppure determinarne la tumultuosa e incontrollabile trasformazione, per sfociare talvolta in irrazionalità e caos; come nel mito greco la scienza ha un carattere duplice e ambiguo, ribaltandosi nel suo contrario, così nei tempi moderni lo scienziato eslege della letteratura, del teatro e poi del cinema, distrugge il mondo che vorrebbe migliorare, poiché presume di essere infinitamente superiore al suo oggetto di studio. Il motivo ha dunque origini antiche, rispecchiando la tendenza fondamentale dell’uomo a varcare la soglia del lecito, forzando i limiti delle proprie capacità. In età contemporanea, alla hybris dello scienziato, fin troppo consapevole del suo talento, si aggiunge la superficialità e ‘sciocchezza’ della pseudoscienza diffusa dai mass media, l’una e l’altra distanti dalla precisione e razionalità della vera e fondata conoscenza.
Silvia T. Zangrandi: Il topos dello scienziato pazzo nasce davvero nella notte dei tempi, tanto da poter dire che ogni epoca ha avuto e ha i suoi scienziati pazzi con cui la collettività ha dovuto scontrarsi: dall’alchimista dotato di sapienza esoterica e di inquietanti poteri magici, allo scienziato ‘intellettuale’ che, nell’intento di dispensare le sue scoperte, si rivela fanatico, ossessionato, disumano, in conflitto con la Legge o con il potere costituito. Il pensiero positivista della seconda metà dell’Ottocento genera, fin dalle sue prime manifestazioni, il suo opposto, per cui, accanto a immagini di razionalità trionfante nelle figure di medici, biologi o filosofi, si profila l’oscura silhouette dell’uomo di scienza che forza le misteriose leggi di natura con risultati imprevedibili e devastanti. Nel Novecento, poi, il tema subisce un ulteriore ampliamento quando il predominio della macchina e della tecnologia entra nell’esperienza quotidiana: la prospettiva di essere sostituiti dalle macchine, la consapevolezza di non essere arbitri del proprio destino, la paura del progresso tecnologico si presentano nelle invenzioni fantastiche di diversi scrittori. Nella stretta contemporaneità, infine, domina la categoria del postumano, come sinergia tra individuo e animale, uomo e macchina, e dà luogo a organismi fluidi, privi di una definita identità, immersi in scenari utopici e distopici. La carrellata che propone il nostro studio dimostra che uno scienziato pazzo c’è stato e ci sarà sempre in letteratura, e purtroppo non solo in letteratura!

Il salto nel vuoto che fanno i folli scienziati al centro del vostro studio, in un momento di persistente instabilità com’è quello attuale, sembra tutt’altro che folle. Possiamo parlarne?

Silvia T. Zangrandi: Il motivo che ci ha spinte a dar vita a questo progetto si radica nella consapevolezza che questo tema sia di assoluta attualità perché si incrocia con l’orrore dell’omologazione, l’impossibilità di sfuggire alle trappole dell’esistenza, la visione della Natura violata. Lo scienziato eslege è colui che vuole oltrepassare i limiti della natura, sia essa umana, animale o vegetale. I filosofi della complessità (Morin, Ceruti, Bodei, per citarne solo alcuni) si interrogano continuamente sul concetto di limite, sulla attitudine di vivere e di agire in un mondo in continuo cambiamento, sulla capacità di valutare i confini e le possibilità della conoscenza, elementi questi ultimi continuamente superati dagli scienziati convocati nel volume. Non va dimenticato che il nostro progetto è stato accolto con entusiasmo nella collana “Letteraria” diretta da Lucia Rodler e Gino Ruozzi perché in grado di dimostrare la capacità della letteratura di dialogare con le culture della contemporaneità.
Ellen Patat: Come ha accennato Silvia, l’argomento è di stringente attualità. L’apparente o reale follia degli scienziati di cui parlano i nostri autori è proprio legata all’instabilità dei tempi, a svariate altezze temporali – dal Quattrocento ai giorni nostri. Il ‘salto nel vuoto’, in tutte le sue molteplici declinazioni, viene interpretato come ‘folle’ poiché i limiti della normalità sono forzati; l’azione s’innesta sulle paure e i timori dell’individuo, così come della comunità, che di fronte alle minacce quotidiane e straordinarie, quali la guerra, delega all’uomo di scienza, o a chi si improvvisa tale, di saggiare anche i confini della legalità scientifica. Le premesse dunque, a ragione, sembrano tutt’altro che folli; sono gli esiti a cui spesso si giunge, forti del potere immaginativo della letteratura, a sfiorare o inoltrarsi nel bizzarro o nel grottesco, e, talvolta, nell’inumano o postumano. La condizione liminale di queste figure investe il loro operato, nonché il loro aspetto; nel nostro volume, a dire la verità, le caratteristiche fisiche, rispetto ad altre rappresentazioni stereotipate, sembrano più sfumate, meno marcatamente alla dottor Mabuse, per intenderci.

Come avete lavorato a questo progetto che definisce, per la prima volta con tanta completezza di intenti e altrettanto rigore scientifico, le sfaccettature del binomio scienza/follia nella cultura contemporanea?

Silvia T. Zangrandi: Il progetto nasce come ampliamento di un panel proposto da Daniela e Ellen al quale sono stata invitata come discussant. I relatori presenti al panel avevano dimostrato con i loro studi che non solo c’era interesse nei confronti di questo tema, ma anche che l’argomento consentiva grandi margini di ampliamento. Inoltre, ci è parso mancasse un volume che raccogliesse, senza pretesa di esaustività, approfondimenti e spunti di riflessione. Quindi nel 2020 abbiamo dato vita a un call for papers che ha riscosso un enorme successo, costringendoci anche a rifiutare alcune proposte.
Daniela Bombara: Nell’ultimo decennio si è sviluppato un notevole interesse per le connessioni fra sapere umanistico e scientifico, ambiti divergenti da quando sembra scomparsa la figura dell’intellettuale ‘totale’, di ascendenza medievale e poi rinascimentale. Ad esempio, il XXIV convegno AIPI (Associazione Internazionale Professori di Italiano) del 2021 è stato interamente dedicato al tema “Scienza, arte e letteratura”. È interessante però osservare come in questa circostanza, e in altri casi, gli studiosi abbiano focalizzato soprattutto la relazione fra forme letterarie/ artistiche e scienza ‘canonica’, basata su rigorosi principi, secondo un’idea di matrice calviniana della letteratura quale mappatura razionale del reale. Ci è sembrato quindi significativo indagare l’altra faccia, oscura e misteriosa, del sapere scientifico nelle sue rappresentazioni letterarie, teatrali e fumettistiche, che offrono al lettore una visione disincantata, talvolta ferocemente critica, degli errori, delle approssimazioni, infine della fallibilità di scienze solo apparentemente ‘esatte’. Il progetto ha costituito anche un’occasione per dare spazio ad autori eccentrici o poco esplorati – pensiamo ad Ermanno Cavazzoni nel saggio di Michele Farina, ad Antonio Rubino, di cui ci parla Paolo Senna – o a generi letterari quali la poesia, mai esaminati da questa angolazione; l’articolo di Samuele Fioravanti sul mito di Leonardo in testi contemporanei ne offre un valido esempio.

“Stranezze della scienza fra Umanesimo ed età contemporanea” e “Confronti, rispecchiamenti, analogie” sono le due macro-sezioni più corpose del volume. Quali sono stati i criteri che hanno portato alla loro definizione e quali sono i loro contenuti?

Ellen Patat: Nella fase di selezione dei progetti da includere, tre macro-linee si sono palesate, portandoci così a definire altrettante sezioni tematiche che ci è sembrato opportuno organizzare in ordine cronologico, nel tentativo di far emergere un potenziale sviluppo di questo topos. “Stranezze della scienza fra Umanesimo ed età contemporanea” è effettivamente la sezione più corposa, che potremmo anche definire ‘poliedrica’ – si spazia dai medici agli astrologi di Burchiello, presentati da Matteo Bosisio, all’ipnotizzatore e allo scienziato di Matilde Serao, di Loredana Palma, agli stravaganti Ix, Ipsilon e Igreca di Rosa Rosà, di cui si sono occupati Tiziana Borġ e Fabrizio Foni. Dino Buzzati, Tommaso Landolfi e Paolo Volponi hanno offerto alle autrici Francesca Favaro, Paola Roccella e Sara Lorenzetti la possibilità di parlare di eccentricità che sfociano in perturbanti ibridismi e popolari cosmogonie. Di pseudo-scienza si sono occupati anche Andrea Gialloreto, Michele Farina e Remo Castellini addentrandosi nelle trame dense e bizzarre offerte da Rodolfo Wilcock e Ermanno Cavazzoni, o nelle narrazioni del cantautore Francesco Guccini. Con questa pletora di personaggi e temi si spazia da approcci alla scienza satirici e ironici, che sfumano i contorni tra sapere scientifico e popolare, alla scienza ‘occulta’, dai richiami alla realtà coeva – ad esempio, il pensiero futurista e positivista, l’odio antisemita, la pervasività tecnologica – a incursioni in mondi ‘altri’ in cui reale e finzione si confondono, destabilizzando la logica comune.
Daniela Bombara: Nell’immaginario comune lo scienziato pazzo è il Viktor Frankenstein di Mary Shelley, ma di fatto anche gli studi critici prendono in considerazione un arco temporale ristretto, che parte dall’Ottocento per esaminare in modo particolareggiato la ricca configurazione novecentesca dell’uomo di scienza ‘irregolare’. Si tratta di una figura complessa, sfaccettata e anche contraddittoria, che a nostro parere può essere compresa adeguatamente solo se si rintraccia il processo evolutivo che ha dato luogo ad alcune sue caratterizzazioni, tenendo presente che si tratta comunque di un topos instabile, fluttuante, soggetto a una continua riscrittura e adattamento fra i diversi generi, nonché a incontri e connubi fra i ‘tipi’ affini che abitano la galassia di sapienti irregolari. Da qui la scelta di dedicare una sezione specifica a questi aspetti del tema: di contaminazioni tra forme letterarie e teatro musicale parlano i contributi di Paolo Sanna su Antonio Rubino, e il mio, che esamina le rielaborazioni del verniano Docteur Ox anche in ambito fumettistico. Silvia Zangrandi e Samuele Fioravanti rintracciano in vari autori della contemporaneità, rispettivamente, il tema delle ‘macchine celibi’, quindi delle inutili e cervellotiche invenzioni, e della figura mitizzata di Leonardi da Vinci; Olmo Calzolari ci propone un inedito connubio tra Italo Svevo e Giacomo Leopardi, dalla prospettiva delle medical humanities. Ellen Patat confronta le narrazioni di Primo Levi e Giovanni Papini, mentre Patrycja Przelucka accosta l’immaginario leviano al ciclo dell’Inquisitore Eymerich, elaborato da Valerio Evangelisti.

Quali sono i caratteri di novità che emergono dai tre scienziati immaginati da Rosa Rosà nel racconto lungo “Una donna con tre anime” che intreccia – come scrivi nel saggio che firmi insieme a Tiziana Borġ – Futurismo, protofantascienza, metapsichica e femminismo?

Fabrizio Foni: Innanzitutto merita forse puntualizzare che dietro lo pseudonimo di Rosa Rosà si cela Edyth von Haynau, scrittrice e artista viennese, sposata con il poeta e romanziere Ulrico Arnaldi e trasferitasi in Italia. Il fatto di vivere in Italia e provenire dalla cultura austriaca le consente di osservare le tensioni e i cambiamenti in atto da una duplice prospettiva. “Una donna con tre anime” è del 1918 e non c’è bisogno di insistere sull’acredine che allora la cultura italiana in generale e il Futurismo in particolare manifestano nei confronti di quanto appartenga all’ambito germanico (tra le pagine de “L’Italia Futurista”, rivista a cui collabora Rosà, ci si imbatte in invettive, campeggianti in grassetto, come “Guerra ai tedescofili!”). Tra gli innumerevoli terreni di scontro vi è pure la maniera di concepire la scienza: i tre scienziati di “Una donna con tre anime” sono grotteschi, pedanti, hanno nomi che tanto suonano generici e anonimi (Ix, Ipsilon e Igreca) quanto, al contempo, evocano l’idea di una tassonomia accademica e, soprattutto, parole di origine straniera. Rappresentano il metodo positivista e, nella fattispecie, la scienza tedesca, un tipo di approccio che il Futurismo aborrisce perché, anziché lasciare campo libero all’immaginazione, àncora lo studio alla dura realtà dei fatti dimostrabili e replicabili in laboratorio. Per la maggior parte degli aderenti al movimento, invece, la scienza deve essere un dispositivo per sognare e ipotizzare l’impossibile. È per questo che proprio gli stessi scienziati, nel racconto lungo di Rosa Rosà, incarnano pure un tipo diverso di scienza, una scienza di confine: lo studio dei cosiddetti fenomeni metapsichici, delle alterazioni spazio-temporali, finanche dell’occultismo. C’è poi naturalmente una forte rivendicazione femminista da parte dell’autrice, seppure sui generis (Rosà sembra tanto rifuggire l’idea di una donna aliena dalla cultura, e forzatamente assoggettata a un uomo e a una famiglia, quanto ella pare guardare con sospetto, se non sarcasmo, a un’ipotetica trasformazione della figura femminile in un’espressione di vita e pensiero interamente speculare, per quanto autonoma, all’universo maschile). Tre scienziati uomini che, di fronte a un fenomeno straordinario che investe una donna, si attribuiscono il diritto di studiare quest’ultima come una cavia e curarla per farla ripiombare nel più completo anonimato: una situazione narrativa che la dice abbastanza lunga.

Nella rivista fiorentina “L’Italia Futurista”, pubblicata per due anni dal 1916, colpisce la presenza di penne femminili che affiancano i colleghi uomini: possiamo parlare di questa caratteristica – nient’affatto scontata – del gruppo di lavoro e di come l’inclusività che lo contraddistingue rappresenti un punto di vista inedito sul tema dell’intero volume?

Fabrizio Foni: Secondo gli standard attuali, “L’Italia Futurista” non rappresenterebbe certo un modello esemplare di parità di genere. Nel contesto (italiano e non solo) in cui la rivista fiorentina sorge e opera, al contrario, si tratta di una fucina significativamente aperta alle voci e alla creatività femminili. Rosa Rosà è solo una delle donne che vi trovano spazio: basti ricordare Irma Valeria, al secolo Irma Gelmetti Zorzi, che tra le varie, l’anno precedente la pubblicazione di “Una donna con tre anime”, firma su “L’Italia Futurista” un articolo che ha il sapore del manifesto, pur non essendo presentato come tale; si intitola “Occultismo e arte nuova” e sostiene – cito – che “le mani della scienza sono troppo callose e brutali”, che “frugano volgarmente e non si accorgono che il mistero è così fragile complesso e puro che nell’attimo stesso si dissolve, si sfalda, tramonta e scompare”. Per Irma Valeria – mi si permetta ancora di citare – “L’occulto non dirà mai la sua parola alla scienza inabile e volgarmente scettica: ma forse riallaccerà le dita sottilissime a quelle di un’arte fatta di fremiti interiori, musicali, finissimi, complessi e misteriosi”. È una descrizione della scienza che suggerisce uno scienziato uomo. Quantitativamente, in seno al Futurismo, prevale un atteggiamento senz’altro machista (mi si passi l’anacronistico termine…) ma, al tempo stesso, si ha un contingente femminile che estrinseca sensibilità nuove, affini e purtuttavia originali rispetto all’immaginario di Marinetti e consorteria di sesso maschile.

Chiude il volume “Scienziati eccentrici nella letteratura disegnata”, in cui trovano asilo riuscite (e eccentriche) riflessioni su fumetto e graphic novel, forme narrative che riescono a cogliere i rischi ai quali il mondo sta andando incontro… Ne parliamo?

Daniela Bombara: L’icona popolare dello scienziato folle è soprattutto fumettistica, probabilmente per la forte componente visiva dell’eccentricità; inoltre, il personaggio funziona particolarmente in un universo manicheo, diviso fra bene e male. Di un assoluto ‘cattivo’ ci parla Francesco Toniolo, illustrando il personaggio di Greystorm, di chiara ispirazione verniana; più sfumati i tratti dei malvagi sapienti, o maghi-stregoni che popolano le pagine di Tex Willer, nell’analisi di Giovanni Contel e Alberto Pellegrini.
Ellen Patat: Effettivamente, la nona arte offre al lettore una chiave di lettura in più nell’interpretazione della materia, è il fascino della libertà grafica, artistica ed espressiva. Più che rischi, direi che quelle affrontate da Cristiano Bedin con l’articolato graphic novel di Alessandro Lise e Alberto Talami sono problematicità del nostro presente: la malattia, la pandemia, l’accanimento medico. I due autori, il cui stile sperimentale merita di essere attenzionato nel nostro volume, affidano a due scienziati de-umanizzati la responsabilità di commentare il mondo della medicina così impegnato a gestire l’epidemia tanto da ridurre gli individui, ormai congestionati in un quotidiano distopico e apocalittico, a masse deformi.