Nella sterminata trattatistica dell’opera di Dario Argento, ha un posto a sé il lavoro di Giovanni Modica, autore di quattro volumi dedicati ai film della “Trilogia degli animali” e al cult “Profondo rosso”, tutti editi da Profondo rosso editore. Dopo aver presentato i primi due volumi (Dario Argento e L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto dalle molte code), abbiamo rivolto alcune domande all’autore sulle ultime due monografie.
Con “Dario Argento e le 4 mosche” e “Dario Argento e Profondo rosso” concludi il tuo lavoro di profonda ricognizione sulla prima parte della carriera del regista romano. Come nasce l’idea di questi libri?
Giovanni Modica: Avevo già pubblicato un libro per la Morpheo sul film “Sette note in nero” di Lucio Fulci del 1976. Scelsi Fulci perché ritenevo che su Argento avessero scritto già in tanti. Ma dato che il libro andò bene, decisi che forse avrei potuto dare un mio contributo personale anche per il pluristudiato Argento, ma solo a una condizione: che fosse per l’editore ufficiale del regista, ossia per qualcuno che non avrebbe mai pubblicato un libro se non fosse stato, per quanto possibile, “nuovo”. Cozzi mi suggerì di scriverne uno su tutta la “Trilogia degli animali”. Accettai. Ne venne fuori un manoscritto fluviale, enorme. Luigi mi disse “è bello, ma essendo troppo grosso e non volendo tagliare nulla, lo dividerei in tre volumi, uno per film”. Fui contentissimo, anche se ciò voleva dire ristrutturare intere parti del manoscritto. Lavoro che feci con la supervisione di Cozzi e di Antonio Tentori, i quali non cambiarono una virgola del contenuto, ma mi aiutarono nello scegliere un’impalcatura editoriale che stesse bene da sola, ossia snellendo i continui riferimenti ai tanti lacci che legavano i tre film. Così uscì “Dario Argento e L’uccello dalle piume di cristallo”. Il mio più apprezzato, forse anche per il fatto che un’intera monografia sul primo film non era mai esistita. Seguì “Il gatto dalle molte code” sul secondo film del regista. Cozzi mi propose, prima di fare uscire il volume su “4 mosche di velluto grigio”, di scriverne uno su “Profondo Rosso”! Provai una certa ansia da prestazione, ma ormai sapevo che (con enorme impegno) sarei stato in grado di dire qualcosa di nuovo e di personale, oltre che di raccogliere testimonianze che, ero convinto, fossero rimaste poche, ma che – con mia stessa sorpresa – scoprii essere ancora tante. Anche stavolta, dopo un altro anno presentai un manoscritto molto corposo, ma stavolta Luigi non poteva suddividerlo in più volumi, così tagliò qualcosa. A stretto giro venne stampato il mio “Dario Argento e le 4 mosche”, che si risolse in un compendio di mio materiale nuovo (come l’intervista a Mimsy Farmer) e una sintesi del materiale che Luigi aveva raccolto per il suo vecchio libro sullo stesso argomento. In pratica, io ho effettivamente scritto due soli, voluminosi libri: uno sulla “Trilogia degli animali” e uno su “Profondo rosso”, solo che il primo venne diviso in tre parti.
Pur arricchita nel corso della serie, la struttura delle analisi è la stessa che hai usato per i precedenti “Dario Argento e l’uccello dalle piume di cristallo” e “Dario Argento e il gatto dalle molte code”. Una parte importante dei volumi è dedicata alle fonti d’ispirazione, ai presunti “furti” e alle influenze più o meno consapevoli che hanno portato alla fisionomia finale delle pellicole… Possiamo parlarne?
G. M.: Come detto, l’omogeneità della struttura delle analisi è dovuta al fatto che, almeno nel caso di “Il gatto a nove code” e “4 mosche di velluto grigio”, era nata da un manoscritto unico, dal quale si è cercato di rendere stilisticamente meno rigidi i legami tra i film, ma mantenendo l’evidenza di una matrice comune. Per quel che riguarda “Profondo rosso”, scelsi di adottare le stesse suddivisioni sia perché si trattava di un libro della stessa serie, sia perché era l’impronta voluta da Cozzi. Fu facile, avevo preso confidenza con quella suddivisione che trovavo esaustiva e ordinata.
A partire dal secondo libro della serie, i volumi riportano nei credit la dicitura “con la collaborazione di Luigi Cozzi”, che oltre ad essere l’editore e il collaboratore di più vecchia data di Argento ha anche sceneggiato “4 mosche di velluto grigio”. In che modo l’esperienza diretta di Cozzi sul mondo cinematografico che hai scelto di raccontare si è sposata con la tua volontà di dire qualcosa di nuovo al riguardo? Com’è stata la collaborazione?
G. M.: Il contributo di Luigi si era fatto via via più concreto, con l’aggiunta di alcune parti tutte sue dove indicato. C’è da dire che non erano previste, dato che io non scrissi nulla insieme a lui e che lo avevo coinvolto in modo diretto solo per una – seppur lunga – intervista. Fu una sua iniziativa il voler aggiungere quel che solo lui poteva sapere. Naturalmente fui lusingato del fatto che avesse tirato fuori dal cassetto del materiale che aveva mantenuto inedito per così tanti decenni per un libro mio. Su “Dario Argento e le 4 mosche”, in particolare, lui era una fucina di ricordi, sia personali che professionali. Anche se qualcuno, vedendo queste testimonianze inedite accostate a quelle già descritte nel suo libro del 2000 “4 mosche di velluto grigio: il più raro film di Dario Argento”, pensò che si trattasse di una ristampa arricchita, mentre era molto di più. D’altronde le parti vecchie erano anch’esse necessarie per dare completezza filologica al libro, che sarebbe stato letto anche da chi non aveva il libro del 2000.
Anche nei due libri che stiamo presentando ci sono materiali, non solo critici, che risalgono agli anni di uscita dei film insieme a nuovi contributi che hai realizzato ad hoc. In che modo sei riuscito a mantenere un equilibrio tra i vari pezzi?
G. M.: È una domanda difficile, perché quando si tratta di dare un equilibrio, non mi pongo il problema più di tanto. Vado a ruota libera senza preoccuparmi se un elemento del libro è sproporzionato rispetto ad altri elementi. La scelta di Luigi di togliere delle parti dal libro su “Profondo Rosso” erano dovute alla lunghezza generale e non a una disarmonia tra gli argomenti. Infatti tutto è risultato ben dosato.
Nella fattispecie dell’equilibrio tra il materiale vecchio e quello inedito, la scelta è stata quella di trattare con una maggiore sintesi ciò che era stato espresso anni fa (e verosimilmente già conosciuto dalla gran parte degli appassionati), pur senza tralasciare nulla, ed essere invece estremamente particolareggiati nei nuovi contributi. Il già-detto dagli altri è stato trattato come un ripasso comunque in modo chiaro.
Quale credi che sia l’elemento particolare che lega “4 mosche di velluto grigio” a “Profondo rosso” e quale pensi sia il loro lascito nel cinema venuto dopo?
G. M.: L’apoteosi dello sperimentalismo di Argento fu proprio a cavallo tra questi due film. Chiaramente, già dai primi due si notava il suo non essere un regista classico, ma da “4 mosche di velluto grigio” la forma e i suoni coinvolgevano per la prima volta lo spettatore in un viaggio sensoriale sofisticato e trasognato, volutamente meno realistico. In “4 mosche di velluto grigio” fotografia, sonorità ed eleganti giochi della macchina da presa rendevano la storia un viaggio emozionale di un’ora e mezza. Si veda per tutti l’incidente finale: mai si erano viste sequenze così studiate e potenti per descrivere un impatto mortale. Con “Profondo rosso”, Dario Argento coniugò una storia più strutturata della precedente con un ulteriore affinamento delle sorprese audiovisive che diventeranno un suo marchio di fabbrica: microcosmi ingigantiti, angolature inusuali e suoni ossessivi. In quel film la sua ricetta collaudata della soggettiva impossibile ti faceva sentire per la prima volta dentro gli occhi dell’assassino per quasi metà film. Argento aveva sospeso il filtro morale del regista, non c’era compassione in quei delitti bensì il compiacimento dell’assassino in prima persona. L’impatto sul cinema “a venire” fu dirompente, in quanto Argento impose nel mondo il suo personale codice registico. Si prenda ad esempio “Halloween – La notte delle streghe” di Carpenter: il primo quarto d’ora sembrava girato direttamente dal regista italiano. E poi De Palma, Rodriguez, Refn solo per dirne alcuni. Oggi, naturalmente, grazie al digitale, parte di quel lascito argentiano è stato replicato in maniera sfacciata da vari esteti della macchina da presa, ma la cose sorprendente è che i film di Dario Argento, di cui abbiamo parlato, continuano a mantenere inalterato il loro fascino anche in quest’epoca in cui può capitare che un giovane veda prima “The Neon Demon” di “Suspiria” e, pur non sospettando la sorpresa che il film del 1977 rappresentò, resta comunque ammirato da quell’opera a lui anagraficamente lontana: segno che in Argento il significante dato dalla sua tecnica non era fine a sé stesso ma intrinsecamente legato agli altri fattori, narrativi e recitativi, anch’essi di prima scelta. Il motivo per cui Dario Argento resta irreplicabile è sostanzialmente questo.