L’angolo di Michele Anselmi per Cinemonitor

E già. “Io credo che le parole contino, bisogna cercare sempre quella giusta, e ce n’è sola una” teorizza la scrittrice settantenne Alice Hughes nel film “Lasciali parlare”. In fondo vale anche per lo stile di Steven Soderbergh, classe 1963: un cineasta eclettico e fantasioso, capace di passare, sempre con un piglio personale, da un genere all’altro, dalle grandi produzioni hollywoodiane agli esperimenti più personali. Come questo. Realizzato quasi senza troupe, in pochi giorni, con lui a fare da regista, montatore e direttore della fotografia grazie a una piccola cinepresa digitale di nuova generazione chiamata Red Camera.
Dove vederlo? Da giovedì 27 maggio è disponibile per l’acquisto e il noleggio premium su Apple Tv app, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, TimVision, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, Sky Primafila e Mediaset Play Infinity. Vale il prezzo del “biglietto”, anche se al cinema non esce. Girato prima della pandemia, tra “Panama Papers” e l’ancora inedito “Non Sudden Move”, il film è di quelli che sembrano partire da una trovata di cast, invece strada facendo, anzi mare navigando, acquistano un sapore più denso, profondo, pure tenero, volendo un po’ alla Woody Allen.
La famosa scrittrice di cui sopra, già vincitrice di un Pulitzer col romanzo “Tu sempre tu mai”, non riesce a finire il suo nuovo libro, nonostante le pressioni della casa editrice. Evasiva sulla storia pensata, che definisce genericamente così: “Parla del tentativo di prendere la luna nel pozzo una seconda volta”, Alice accetta l’invito di un prestigioso premio letterario inglese; solo che lei non può prendere l’aereo per motivi di salute, sicché l’agente Karen le prospetta di fare la traversata oceanica in nave, sulla lussuosa “Queen Mary 2”: potrà portare chi vuole, gratis, a patto che tenga una conferenza letteraria durante il viaggio.
La verità? Alice vuole rivedere le sue due amiche del cuore, conosciute al college e perse di vista da oltre trent’anni. Susan e Roberta, l’una a Seattle e l’altra a Dallas, accettano volentieri l’inattesa rimpatriata; e con loro si presentano all’imbarco il nipote della scrittrice Tyler, perché si prenda cura del gruppo, e a sorpresa l’agente Karen, che si sta giocando il posto.
Avrete capito che lo spazio chiuso del transatlantico si trasforma in una sorta di palcoscenico teatrale, nel quale tutti i personaggi, più altri due maschili che si aggiungono, mettono in scena una commedia buffa e asprigna allo stesso tempo: sui temi dell’amicizia tradita, del tempo perduto, delle occasioni mancate, dell’amore inatteso, dell’armonia cercata, del talento oscurato. Il tutto visto dal punto di vista di Tyler, per certi versi il “narratore” della vicenda, almeno secondo il copione di Deborah Eisenberg largamente rimaneggiato durante le riprese, per lasciare spazio all’improvvisazione degli interpreti.
Il problema è che Roberta non perdona Alice di aver provocato la fine del suo matrimonio trasferendo in un romanzo alcune vicende sentimentali destinate a restare confidenze tra amiche. La donna, ridottasi a fare la commessa di lingerie, si aspetta delle scuse da Alice, forse anche un risarcimento, e intanto sull’enorme piroscafo prova a rimorchiare qualche anziano danaroso; mentre Susan, più risolta e serena, prova a mettere pace tra le due, senza disdegnare la corte discreta di un popolare giallista, tal Kelvin Kranz, incontrato al ristorante.
“Provarci è tutto, se non rischi…”: mi pare questo il senso di un film curioso, divagante, a tratti feroce, che scandaglia l’animo dei personaggi, facendo in modo che ciascuno sfoderi una sua dimensione nascosta, parallela, a partire da Alice, la star della situazione, a prima vista gelida, supponente e tutta concentrata su sé stessa, invece forse alla ricerca di uno sguardo diverso sulla propria, fragile vita. Avrete capito che tra il prologo americano e l’epilogo gallese, sulla tomba dell’immaginaria scrittrice Blodwyn Pugh, succedono parecchie cose, specie nei sette giorni della traversata per mare, che Alice, certosina nell’uso delle parole, non chiama mai “crociera”.
Meryl Streep, Candice Bergen e Dianne Wiest, rispettivamente nei ruoli di Alice, Roberta e Susan, si divertono a indossare senza infingimenti i segni dell’età, aderendo alla partitura corale, senza vezzi da “mattatrici”, con piglio naturale e spontaneo; ma anche Lucas Hedges e Gemma Chan, cioè Tyler e Karen, si intonano al registro generale della commedia, suggellata da un finale malinconico, forse un po’ irrisolto e aperto, ma che non stona affatto.

Michele Anselmi