L’angolo di Michele Anselmi
Naturalmente un film deve vivere di luce propria, anche se tratto da un romanzo importante e molto venduto, sicché ha ragione chi raccomanda di vedere “Tre piani” di Nanni Moretti evitando un costante e certosino raffronto con il libro di Eshkol Nevo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2017. D’altro canto, però, “Tre piani” è il primo film che il 68enne regista e attore romano ha tratto da una storia non sua, peraltro originariamente ambientata in Israele, un Paese che, per mille ragioni, anche geopolitiche, non assomiglia proprio all’Italia.
A lungo bloccata dal Covid e a luglio scorso in concorso al festival di Cannes, l’opus n. 13 di Nanni Moretti esce domani, giovedì 23 settembre, col marchio 01-Distribution, coproducono Sacher, Fandango e la francese Le Pacte. Com’è? Sobrio, plumbeo, un po’ disturbante, volutamente senza un’ombra dell’ironia puntuta che in genere ci si aspetta dal regista di “Caro diario”. Trasportando la vicenda da Tel Aviv a Roma, in una palazzina a tre piani tra piazza Mazzini e il Tevere, Moretti e le sceneggiatrici Valia Santella e Federica Pontremoli hanno “smontato” la struttura letteraria, intrecciando le vicende e alterando l’arco temporale, che ora copre dieci anni (5 + 5). Perché farlo? Immagino per rendere più corale il racconto e restituire i fatti non in una chiave di flashback; forse pure per far rivivere un personaggio destinato a Moretti-attore.
Se nel romanzo i tre monologhi si sviluppano su piani emotivi diversi, a comporre un’allegoria delle tre note catalogazioni freudiane, cioè Es, Io e Super-io, nel film la suggestione psicoanalitica si perde un po’, così da attribuire ai personaggi, certo infelici e nevrotici, perennemente in bilico tra pulsioni, inquietudini e autocontrollo, una dimensione universale più condivisibile al cinema.
Disincanto e dolore sono il tratto distintivo del film, girato senza bellurie estetizzanti, quasi a luce naturale, cercando la durezza dei volti e delle parole. Per fortuna, dopo quasi due ore tendenti al cupo, nell’epilogo si manifesta un anelito di speranza, un sentimento che inclina al perdono (verso sé stessi e chi ci sta vicino).
Le tre storie, molto sintetizzando.
Primo piano. Riccardo Scamarcio ed Elena Lietti lasciano spesso la loro figlia a due anziani vicini di casa, che sono Paolo Graziosi e Anna Bonaiuto; solo che il vecchietto è affetto da Alzheimer, un giorno lui e la bimba escono, si perdono e vengono ritrovati in un parco. Un dubbio atroce s’impossessa di Scamarcio: che la bimbetta abbia subito una violenza sessuale. Per conoscere la verità, non esiterà ad andare a letto con la nipote minorenne del demente, e saranno guai.
Secondo piano. Alba Rohrwacher è una giovane moglie che ha appena partorito. Sola, depressa e spaventata da tutto, spera che il marito Adriano Giannini, sempre lontano per lavoro, torni a starle vicino. E intanto, tra un’allucinazione e un soprassalto, le piomba in casa il fascinoso fratello del marito, Stefano Dionisi, che cerca rifugio per una notte essendo inseguito da centinaia di creditori e forse da chi vuole ucciderlo. Tra i due sembra nascere una strana sintonia.
Terzo piano. Il burbero giudice Nanni Moretti e sua moglie Margherita Buy, anche lei del ramo, devono fare i conti con il figlio scellerato Alessandro Sperduti, il quale, guidando ubriaco, ha appena investito una donna incinta, proprio sotto casa. La madre vorrebbe aiutarlo, il padre è inflessibile: “Sei un cretino completo, lo sei sempre stato. Hai ucciso una donna e ora devi andare in prigione. Non voglio più vederti”. Passano gli anni e una vecchia segreteria telefonica favorirà una specie di miracolo.
Avrete capito che nessuno è amabile in questo “catalogo” di umane meschinerie, rancori familiari, sospetti acidi e rigidità ossessive; e anzi, strada facendo, tutto sembra complicarsi ancora di più, se non fosse per i figli che crescono e se ne vanno…
C’è una battuta che condensa, forse, il senso del film: “Ehi sveglia, il mondo è un po’ più grande di questo condominio”. Eppure quel palazzetto a tre piani racchiude proprio un mondo, improntato a una certa agiatezza borghese, cullatosi nell’illusione di bastare a sé stesso, di non dover mai prendere aria.
Rispetto al libro non ci sono kibbutz e manifestazioni per la casa, ma fa capolino, forzata assai, la rabbia xenofoba verso gli immigrati con lancio di bottiglie incendiarie. Tuttavia non sta qui il difetto principale di un film che si barcamena tra realismo e astrazione, finendo con l’essere più inerte che allusivo, più torvo che coinvolgente. Pure la recitazione, almeno nella prima ora, mi sembra poco a fuoco, tra urlata e straniata, “esteriore”; poi, invece, i tasselli del puzzle si compongono meglio, più armoniosamente, e il film trova una sua strada per arrivare nell’epilogo al cuore e alla testa degli spettatori.
PS. Il balletto per strada al suono della milonga però era da evitare.
Michele Anselmi