Tom Barman, il leader fondatore dei dEUS, è un artista che in Belgio riscuote lo stesso seguito di Vasco Rossi in Italia. Qualcuno dovrebbe avvisarlo che è stato pubblicato un libro di Leonardo Colombati dal titolo “Sinceramente non tuo” dove un Barman in versione scialba e dimessa appare tra i protagonisti. Non riesco ad immaginarmi un personaggio meno interessante del Tom Barman rappresentato in “Sinceramente non tuo”, una rockstar in balia di un male oscuro chiamato asimmetrofobia, melensamente innamorata di una Fiat 500, che sta lì a fare da arredo senza un ruolo preciso in una trama altrettanto povera su amicizie maschili, rimpianti strappalacrime e l’immancabile triangolo amoroso appena sfiorato. Esiste probabilmente una scuola di pensiero letteraria che a partire da Pier Vittorio Tondelli attraverso Gianluca Morozzi fino a Colombati ricorre spesso e volentieri alle battute spiritose. Qui abbondano e non fanno ridere. Perché mai ci si dovrebbe divertire con scambi di battute come il seguente?
Antonello mi ha risposto: “La meta esotica non è nelle mie corde. Quando vedo in TV quelle storie di italiani che si rifanno una vita in una capanna nel Borneo regolo l’aria condizionata su “Polo Sud” e abbraccio il modem del wi-fi come se fosse il mio cucciolo di pezza”.
“La verità è che tu trovi faticoso il solo cambiare circoscrizione” gli ho detto, mentre i denti affondavano finalmente nel cuore di mozzarella.
“Sono finito a Roma Nord, Luca: il regno dei notai in Harley Davidson e dei teenager con la frangetta. È stato più avventuroso che addentrarmi in mountain bike in Patagonia.”
Chi parla così al giorno d’oggi? Riformulo la constatazione: nessuno ha mai parlato così. Ma all’autore del romanzo stanno molto a cuore le goliardate tra amici, gli ammiccamenti e le complicità mentre, seduti al tavolino di un bar, con aria superiore prendono in giro gli avventori del locale senza rendersi conto dell’effetto patetico dei loro motti di spirito, vedi per esempio: “Certo! Dio non esiste, il mondo c’è perché non può non esserci qualcosa, siamo soli e spaventati nell’universo, e quando moriremo non ci trasformeremo né in angeli né in demoni, e nemmeno nel fantasma Formaggino”. Qua e là compare qualche sincera autocritica da parte dell’autore per le proprie scempiaggini fino a far emergere un secondo Colombati che nei panni di saggista non sarebbe poi così male, ma purtroppo ci mette ben poco a ricadere nei suoi soliti cliché nonostante gli sprazzi di luce.
Non è comunque facile scrivere di rock’n’roll. C’è riuscito bene Nick Hornby (nella foto) che ha messo a confronto due geni assoluti nel loro campo, Charles Dickens e Prince, due fiumi in piena consumati dalla loro vena creativa, incapaci di smettere di lavorare e di dividere la propria arte dal resto della vita di tutti i giorni. Entrambi muoiono a 58 anni. Di Dickens a Hornby piace ricordare le interminabili camminate notturne su e giù per Londra, la sua città. Ad una velocità media di 4 miglia all’ora percorreva circa 12 miglia al giorno camminando, sostiene Hornby, in uno stato semicosciente. È così che nascevano i suoi personaggi. Londra diventava la sua immaginazione e l’euforia delle passeggiate notturne lo conduceva dritto alla sua scrivania di primo mattino, pieno di parole per raccontare quello che aveva visto dentro e intorno a sé. Prince ci ha insegnato che l’unico modo per vivere veramente è di non scindere mai l’uomo e l’artista. O crei di momento in momento o muori. Nessuno sa ballare o suonare la chitarra come Prince. Basta guardarne l’assolo su YouTube nella sua versione live di “While My Guitar Gently Weeps” per rendersene conto. Domanda: che fine fa la chitarra dopo che Prince l’ha lanciata in aria alla fine del pezzo? Lo strumento sconfigge le leggi di gravità? Non lo si vede tornare giù. Prince verrà per sempre ricordato per fantastici successi da hit parade come “Purple Rain”, “Sign O’ the Times”, “Kiss” e “Musicology”, tanto per citarne qualcuno. Ha flirtato con il rap ma ambendo a un pubblico multirazziale non ha mai voluto che lo si incasellasse nell’etichetta di “artista nero”. Non si considerava né bianco né nero, bensì un ibrido. Chuck D, fondatore dei Public Enemy, puntualizza nel documentario “A Purple Reign” come solo in un secondo momento Prince fosse arrivato a comprendere che stava rischiando di perdere contatto con la sua audience di origine afroamericana. Se brani come “Dead on It” e “Bob George” inclusi nel Black Album stanno lì a dimostrare che all’inizio Prince era perlomeno ambivalente se non del tutto irrispettoso nei confronti della musica rap, va comunque detto che il suo rapporto con l’hip hop cambiò tanto che Prince cominciò ad assorbirne se non ad apprezzarne il valore. Ma l’intima pulsione del suo talento, oltre che sessuale, era essenzialmente religiosa. Lo testimoniano canzoni come “The Cross” e la sua conversione alla fede dei Testimoni di Geova. Prince appartiene a un club molto esclusivo nella cui stratosfera si accompagna ad artisti del calibro di Bach, Mozart, Miles Davis e ovviamente Charles Dickens come ci suggerisce Nick Hornby in “Dickens & Prince”. Miles Davis è un altro di quegli individui che hanno rivoluzionato la musica del ventesimo secolo. L’ha fatto almeno due volte, con “Kind of Blue” nel 1959 e “Bitches Brew” nel 1970. Il mio album preferito resta comunque “Live at the Fillmore East” perché in quelle performance dal vivo Miles Davis riesce finalmente a liberarsi del fantasma di Jimi Hendrix. La sua tromba smette di inseguire il miraggio dei suoni di una chitarra elettrica e si trasforma in qualcos’altro. “Nefertiti” del 1967 è intriso di mitologia egizia. Miles Davis è sempre alla ricerca di sinergie che rappresentino una colonna sonora credibile per le stravaganze dell’attualità, un pioniere impegnato ad abbattere barriere artistiche. In “Blues for Pablo” il trombettista riconosce quanto la sua musica sia debitrice nei confronti dello stile di pittura di Pablo Picasso. Sia le canzoni che le immagini possono essere percepite da molteplici prospettive. Dopo l’uscita di “Get Up with It”, a metà degli anni settanta, Davis visse da recluso per un lungo tempo. Fu proprio la passione per Prince a restituirgli la voglia di entrare in uno studio di registrazione. “One Phone Call/Street Scenes”, l’opening track di “You’re Under Arrest”, “Full Nelson” e “Penetration” non sono immaginabili senza l’influenza di Prince. “Penetration”, già il titolo lo lascia intuire, è stata addirittura scritta da lui. Miles Davis ha fatto da precursore nel rimuovere i confini tra jazz classico, elettronica, rock, pop e persino hip hop. “Doo-Bop”, il suo ultimo album pubblicato postumo, era una fusione di jazz-rap. Ebbene sì, Prince ha avuto, tra i suoi tanti pregi, anche il grande merito di salvare Miles Davis dall’apatia!
In “A Theatre for Dreamers” Polly Samson ha provato a scrivere la biografia di un’isola ma ha sbagliato bersaglio. Hydra resterà per sempre associata al nome di Leonard Cohen, che vi ha soggiornato per anni. In apparenza un buen retiro per artisti in cerca d’ispirazione, l’isola ha dato ospitalità a una comunità decadente di espatriati di varia estrazione tutti piuttosto inadatti a vedere oltre se stessi, alle loro gelosie e alle loro ripicche, a un dramma dopo l’altro su cui spettegolare. Samson non coglie nel segno per eccessiva ricercatezza e per il consueto snobismo di certa intellighenzia anglosassone di fregarsene dei veri abitanti del luogo, cioè i greci. Purtroppo “A Theatre for Dreamers” pecca di condiscendenza tanto quanto il film “Mamma Mia”. I protagonisti si ostinano a consultare l’immarcescibile I:Ching. Più che concentrarsi sulle paturnie del presunto club esclusivo di sedicenti scrittori residenti a Hydra chissà, la voce narrante non avrebbe forse fatto meglio a ricercare altrove le vere origini del fascino che riscuote quell’isola? Perché non nei racconti leggendari che la accomunano alla costellazione dell’Idra? O nell’antico mostro Idra dalle innumerevoli teste di serpente sconfitto da Ercole durante la sua seconda fatica, nel mito di Kore-Persefone costretta a sposare il re del sottosuolo, nei misteri eleusini che si svolgevano non molto distante da lì? O addirittura negli esperimenti di intelligence sulla manipolazione mentale operanti in Canada e Stati Uniti e denominati, guarda caso, Hydra? Nel documentario “Ladies and Gentlemen Mr Leonard Cohen” a lui dedicato Cohen si diverte a trasmettere tra le righe l’idea stravagante di essere un doppio agente. Per conto di chi? Qualcosa comunque non funziona a Hydra e qualcosa non torna nei suoi rapporti con l’isola. Io non ci trovo molto di idilliaco e di romantico, nemmeno nella relazione con la sua musa Marianne. Un posto pieno di solitudine ma senza nessuna privacy, qualcuno l’ha descritto. Un magnete per persone instabili di diverse nazionalità, molte delle quali non hanno fatto una bella fine tra suicidi, tracolli psichici e disgrazie varie. Nelle righe conclusive del suo romanzo pseudo-autobiografico “The Favourite Game” Cohen ammette di aver avuto momenti talmente paralizzanti da non essere stato più in grado di passare da un istante a quello successivo della sua quotidianità. “The Favourite Game” è un libro pieno di crudeltà che si chiude con un grande rammarico e con le seguenti testuali parole nella penultima pagina: “un giorno quel che lui le aveva fatto, e aveva fatto al bambino, gli sarebbe diventato chiaro e lo avrebbe schiantato con un tale senso di colpa da renderlo catatonico per giorni, finché lo hanno dovuto portare via e le apparecchiature medicali gli hanno consentito di ritornare di nuovo a parlare”. Cohen ha convissuto con un grande rimpianto. Una biografia dell’isola di Hydra in grado di esplorarne i motivi meriterebbe davvero una grande attenzione.
Marco Zoppas