“America Latina”, terzo lungometraggio dei gemelli D’Innocenzo, dopo essere stato presentato in anteprima al Festival di Venezia, è in questi giorni nei cinema italiani. L’attesa pellicola racconta la cupa storia di Massimo (interpretato da Elio Germano), un affermato dentista destinato a scoprire un oscuro segreto celato nei sotterranei di casa sua, a Latina. Il film, un ibrido tra diversi generi quali il thriller, l’horror ed il noir, sprofonda lo spettatore in una pesante atmosfera ansiogena in cui la paranoia del protagonista rende difficile discernere ciò che è reale da ciò che viene immaginato dalle sue proiezioni mentali. Una discesa negli inferi, rappresentati simbolicamente dal seminterrato di una casa borghese e visivamente dalla fotografia di argentiana memoria, nella quale la salute psicologica di Massimo vacillerà sempre di più tramutandolo in un essere aggressivo e violento.
Il film rappresenta sicuramente l’opera più matura dei due registi romani, da sempre interessati alle periferie intese come non-luoghi dove si consuma la corruzione dell’animo umano. Se ne “La Terra dell’Abbastanza” i margini della Capitale erano il teatro perfetto per le scorribande mafiose dei due protagonisti, Latina diventa qui lo scenario in cui le apparenze borghesi del protagonista e della sua famiglia sono destinate a decadere lasciando il posto al grottesco ed al surreale. Peccato che questa volta la provincia romana non venga indagata a fondo, ma relegata a distante palcoscenico nel quale si consuma un dramma familiare. Il lungometraggio brilla per interessanti intuizioni registiche, come lunghi piani sequenza ed inquadrature sghembe che interpolano il protagonista con il desolato scenario circostante. Degna di nota anche l’acida fotografia di Paolo Carnera, dominata da accesi toni al neon ora tendenti al rosso (reminiscenze di “Suspiria”) ora al verde. Il montaggio schizofrenico e frammentato di Walter Fasano ricalca ed enfatizza la spessa coltre ansiogena nella quale Massimo perderà sé stesso. A completare il già ottimo comparto tecnico ci pensano i Verdena, storico gruppo alternativo italiano, firmando la loro prima riuscitissima colonna sonora dominata da echi di pianoforte riverberato e da un sound rarefatto. Inoltre, davvero intensa l’interpretazione di Elio Germano: è capace di trascinare quasi da sola l’intero film che non eccelle certamente nella caratterizzazione dei personaggi comprimari.
Purtroppo, invece, la sceneggiatura non riesce a raggiungere i picchi qualitativi della certamente ottima messa in scena. Una volta terminati i novanta minuti della pellicola si ha come la sensazione che la forma abbia drasticamente sovrastato la sostanza, estetizzando all’inverosimile quella che, in fin dei conti è una trama semplicissima e neppure troppo originale. Basti pensare la centralità che il seminterrato della casa borghese ricopriva in “Parasite” di Bong Joon-Ho. La critica all’America, addirittura invocata nel titolo, appare essere superficiale e semplicemente accennata, riducendosi ad un’insipida e generica arringa contro le apparenze della media borghesia e la mascolinità tossica. Tutto già visto. Si ricordi, per citarne un paio, “Kynodontas” di Yorgos Lanthimos oppure “Funny Games” di Michael Haneke. Non basta ad elevare la sceneggiatura neppure un colpo di scena finale altamente prevedibile che non brilla certamente per inventiva. Inoltre, su tutto il lungometraggio grava un evidente buco di trama mai realmente chiarito: “Perché Massimo non avverte subito la polizia invece di annegare sé stesso in una spirale allucinogena fatta di farmaci ed alcool?”.
In sostanza, decisamente troppo poca America, un immaginario complessissimo liquidato con una manciata di semplici rimandi allegorici, e davvero troppo poca Latina, ridotta ad un irreale spazio liminale qualunque.

Gioele Barsotti