L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Avete in mente quella celebre caricatura in bianco e nero, intitolata maliziosamente “Il pensiero di Freud”, con la testa dello psicoanalista viennese a forma di donna nuda, col pelo pubico al posto delle folte sopracciglia? Bene, non troppo diversamente è truccato Marco Giallini nella commedia di Paolo Genovese “Tutta colpa di Freud”, in sala da oggi e pure nelle librerie in forma di romanzo. «Volevo dar vita a una commedia sentimentale al femminile. Ho pensato così a tre storie di ragazze dal punto di osservazione privilegiato di un genitore, in questo caso un padre separato che fa lo psicoanalista» scrive il regista-sceneggiatore, già socio di Luca Miniero e ora suo “rivale” al botteghino, nelle note di regia. Genovese, romano, classe 1966, ben cinque film tra il 2010 e questo 2014, tutti per Medusa, è cineasta gentile e specializzato in storie corali, a partire dai due “Immaturi”; e infatti, secondo la moda corrente, il manifesto di “Tutta colpa di Freud” è scomposto in riquadri, ciascuno dei quali ospita uno dei sette attori protagonisti: Giallini con la barba da venerabile “strizzacervelli”, appunto, Vittoria Puccini, Anna Foglietta e Laura Adriani, Alessandro Gassmann, Claudia Gerini e Vinicio Marchioni.

Trentenni, quarantenni, grandi famiglie, una chiave generazionale e interclassista, soprattutto tanta musica, troppa musica. Ho contato 17 canzoni nel film, a partire da quella di Daniele Silvestri che dà il titolo al film o viceversa, più tutte le musiche di Maurizio Filardi scritte apposta. Una colonna sonora ininterrotta, che sottolinea ogni attacco di scena, copre ogni dialogo o battuta, enfatizza e sorregge le scene comiche o drammatiche, come se il regista, al montaggio, poco si fidasse delle cose che il copione, scritto con Paola Mammini e Leonardo Pieraccioni (sì, lui), fa dire ai personaggi.
Perché neanche un secondo di silenzio? Perché questi giovani (e meno giovani) cineasti italiani infarciscono i loro film di canzoni in inglese? Pensano che, così facendo, l’attenzione del pubblico giovane sarà più sveglia e convinta? Il tema è serio, non riguarda solo una ubbia estetica da critici, una modalità espressiva, una furbizia commerciale; la scelta riguarda la forza delle parole dette sullo schermo e insieme l’uso sconsiderato, quasi “tossico” e molesto a parere di chi scrive, del commento musicale spalmato in questo caso su tutti i 120 minuti di “Tutta colpa di Freud”.

Ciò detto, ha qualche ragione Marco Giusti quando scrive su Dagospia, salutando con rispetto il film: «Buone notizie! Da quanti anni non vedevamo un film italiano dove si parlasse di congiuntivi, di futuro anteriore (ahi!), dove un personaggio lavora al Teatro dell’Opera, un altro addirittura in una libreria nel centro di Roma (ma ne esistono ancora?) e a una lettrice che chiede “50 sfumature di grigio” risponde stizzito “Il parrucchiere è qui accanto”?». La battuta sul best-seller di Erika Leonard è di sicuro azzeccata, e il film, ambientato in una stordente Roma del centro fotografata con cura alla maniera di “La grande bellezza”, naturalmente non va preso come un trattatello irriverente nei confronti della psicoanalisi o la terapia di coppia: a Genovese interessa, partendo da quel papà che cura le nevrosi altrui, interrogarsi «sulle differenze in amore e sulle difficoltà ad accettarle».

Così succede che l’analista Francesco Taramelli (Giallini) debba fare i conti con le tre figlie, di diverse età e tutte ancora ospitate nella sua bella casa con terrazza. Sara (Anna Foglietta) è una lesbica dichiarata e convinta, delusa da un amore newyorkese, decisa a cambiare orientamento sessuale per vedere l’effetto che fa: vabbè. Marta (Puccini) è una soave libraia invaghitasi di un timido ladro di libretti d’opera, che scopriremo presto essere sordomuto. La diciottenne Emma (Adriani) ha una relazione con un cinquantenne manager di Ikea, tal Alessandro (Gassmann), a sua volta sposato con la sensuale ed elegante Claudia (Gerini). L’analista prende in cura il coetaneo nella speranza di convincerlo a separarsi o a lasciar stare la figlia “immatura”; ma intanto, ecco il tono da pochade, si innamora della moglie di lui, finché le cose non si complicheranno all’infinito.

Magari è vero, come teorizza Taramelli catechizzando le figlie, che il 95 per cento degli uomini va ripartito in quattro categorie: “Insoddisfatto”, “Peter Pan”, “Vorrei ma non posso”, “Buono, bello e intelligente (ma mammone)”. Solo il restante 5 per cento sarebbe decente, e in quel bacino invita le figlie a pescare. Il dibattito è aperto.
Il film, forse un po’ troppo lungo nell’intrecciare le quattro vicende, si lascia vedere, e strappa anche sorrisi genuini, specie nell’impagabile incontro a cena tra la ben disposta Foglietta e il pitocco Gianmarco Tognazzi che vuole pagare “alla romana”. Ma resta la sensazione, anche rispetto ad omologhi anglosassoni sempre citati da Brizzi e dai Vanzina, di assistere a una concentrazione di luoghi comuni, di faccette, di strizzatine d’occhio. L’amore sarà pure «la più diffusa malattia del mondo», come sostiene Genovese, ma allora siamo proprio sicuri che questo tipo di cine-omeopatia basterà a curarla?

Michele Anselmi