Il diario americano di Roberto Faenza | Fuga da New York (conclusione)

La solitudine del regista. Nonostante le decine e decine di persone che lo circondano durante le riprese, il regista è fondamentalmente un uomo solo. Solo a dover decidere, scegliere, rinunciare, sgridare, blandire, arrabbiarsi, discutere con  produttori e finanziatori,  lottare sempre contro il tempo che non basta mai.

Video. Un tempo gli attori vedevano le proprie performance solo in sala di proiezione, se il regista gli consentiva il privilegio. Marcello Mastroianni mentre in Portogallo giravamo Sostiene Pereira, mi raccontava che Federico Fellini lo invitava a vedersi ogni giorno alla fine delle riprese nella saletta di Cinecittà. Marcello sbadigliava e si addormentava dopo pochi minuti. Finché Fellini, capita l’antifona, smise di invitarlo. Ora gli attori si vedono sul set dopo ogni inquadratura. Possono farlo mentre si gira, scrutando dentro le decine di monitor collegate alla macchina da presa. Il che è spesso un guaio. Perchè se non si piacciono obbligano il regista, che magari è ampiamente soddisfatto, a rigirare la scena. Con conseguente irritazione e perdita di tempo. Alcuni attori, come appunto Mastroianni, per fortuna non si vogliono rivedere. Sono gli attori che preferisco.

A costo di risultare impopolare, devo ammettere che ho maturato l’idea: guai dare carta bianca agli attori. Ti confondono le idee, spesso chiedono cose impossibili, ti rendono la vita difficile specie quando non sanno cosa davvero vogliono o come quando non riescono a esprimersi. Alla fine loro stessi preferiscono essere guidati, anzi comandati. Il peggio poi è quando si coalizzano due o più attori sul set, allora per il regista è una sciagura.

Soundman. I tecnici del suono, pur sempre equipaggiati con le attrezzature più sofisticate, non hanno ancora risolto il problema di girare contemporaneamente con due o più cineprese, come uso fare io. Per questa ragione spesso il sonoro è valido per una camera e magari non per l’altra. Oppure per l’inquadratura in totale, ma non per i primi piani, in quanto il booman non riesce a coprire entrambi i campi. Ciò ti obbliga a rigirare l’una o l’altra inquadratura, il che è una croce soprattutto per gli attori. Anche le modalità per microfonare gli attori e trovare dove piazzargli il microfono può essere talvolta un problema. Specie quando indossano abiti leggeri o scollati. E’ il caso di Dree Hemingway, che interpreta il ruolo di una studentessa succintamente vestita in una scena di ballo. Ha un abito così audace che solo nelle mutandine le si può sistemare un radiomicrofono.

Un’industria meccanicamente obsoleta. Per girare un film tutta una serie di attrezzature sono rimaste primitive, identiche a com’erano 100 anni fa. Mentre le cineprese sono diventate digitali, le moviole non esistono più sostituite dai computer, gli effetti sono sempre più mirabolanti e tecnologicizzati, molte altre attrezzature sono davvero antiquate. I carrelli, i dolly, gli statini, le lampade, i treppiedi, il polistirolo, le “bandiere” sono rimaste ferme al secolo scorso. Per non parlare delle tecniche di illuminare gli ambienti, a volte basate su strisce di carta, pezzetti di plastica, fogli da disegno, nastri adesivi. Come mai questo ritardo nell’innovare soprattutto la parte meccanica del cinema? Semplice: perchè l’industria cinematografica si è concentrata a sviluppare il comparto visivo (dalla pellicola al digitale), ma non la strumentazione meccanica. E’ un ritardo che pesa sui tempi di lavorazione, sulla complessità e l’ingombro delle attrezzature e che prima o poi dovrà essere colmato. Tra le novità, da segnalare lo “slider”, una specie di minicarrello montato sul treppiedi anziché a terra. E’ utilissimo perché manovrato direttamente dal cameraman. In Italia ancora non esiste. Da New Yorkk ne abbiamo importato uno che useremo nel prossimo film.

La troupe ha diritto a lunch e dinner ogni sei ore. Devo dire che il catering offerto durante le riprese è davvero copioso, oltreché di prima scelta. Insieme al catering, che viaggia su ruote con una vera e propria cucina al nostro seguito, c’è anche il “craft”. Questo fornisce alla troupe in ogni momento della lavorazione una “assistenza alimentare” continua. Il set è letteralmente invaso da dolci, frutta anche esotica, formaggi prelibati, bevande e succhi di ogni genere, hamburger e pizze cucinate all’istante. Tanta abbondanza un po’ stride con le campagne governative rivolte a un popolo afflitto dall’obesità (secondo le statistiche il 60% degli americani sono sovrappeso e circa il 30%, inclusi molti adolescenti, sono obesi).

Mentre giro, uno dei miei collaboratori mi mostra il suo Ipad aperto sul sito www.boingboing.net. Si tratta di un portale che colleziona strane news. Quella di cui parlo ora è davvero incredibile, eppur vera. Boingboing ha appena realizzato un servizio sull’Italia colonialista ai tempi del fascismo. Da una pattuglia di aerei d’epoca si vedono lanciare col paracadute decine di capre e mucche terrorizzate. Vengono paracadutate al suolo durante la conquista della Etiopia per sfamare le viziate truppe agli ordini di Mussolini. Infatti i nostri eroici soldati non volevano mangiare carne in scatola, come tutti gli altri. Sono immagini che fanno ridere, ma la dicono lunga sulla propaganda fascista.

Eataly, sulla Fifth Avenue. “You are what you eataly”. E’ il nuovo tempio della cucina italiana, fatta di alimentari e ristoranti, aperti da mattina a sera. Superaffollato, inaugurato da poche settimane, con un investimento di 25 milioni di dollari, è la meta dei buongustai newyorkesi. Eataly è nato a Torino, apparentata a Slow food. Ora mira a espandersi con successo in tutto il mondo. La citazione, che è il motto di Eataly viene dal filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, ma qui “sei cosa mangi” è diventato “sei cosa Eataly”.

Negozi a New York. Sono di rara bellezza, elegantissimi, sofisticati, disegnati dai migliori designer del mondo. Ma le merci vendute sono piuttosto mediocri, forse perché costano meno che da noi e dunque sono più attenti al costo che alla qualità.

Aria condizionata a canna. A New York sono pazzi. Tengono l’aria condizionata ovunque anche sotto i 15 gradi, specie nei negozi, quando fuori magari ce ne sono 40. Un dislivello micidiale, che causa malattie e soprattutto danneggia l’ambiente. Dovrebbe essere proibito per legge andare sotto i 21 °, quando i medici consigliano di non abbassare mai i condizionatori per più di 7-8 gradi rispetto alla temperatura ambiente. Stessi dislivelli d’inverno quando si tengono i termosifoni al massimo.

Fuga da New York
. Girare interamente un film lì è stato un inferno. Specie a causa di una diffusa burocrazia e per la rigidità delle union (di cui ho scritto nel Diario). Le stesse produzioni statunitensi, se possono, evitano New York. Preferiscono trasferirisi in Canada, o in altri stati americani più permissivi. Tuttavia devo ammettere che mi dispiace andare via. E’ quanto ho provato durante il wrap party di fine riprese. Tutti quelli che ho sgridato o con i quali  ho litigato per tante settimane all’improvviso mi sono apparsi come amici di lunga data, che mi addolorava lasciare. Mi è dispiaciuto persino lasciare l’appartamento di Bleeker Street con il topo dentro.

Di seguito trovate i link alle precedenti pagine del Diario:

> Prima puntata                        

> Seconda puntata

> Terza puntata

> Quarta puntata

> Quinta puntata

> Sesta puntata

> Settima puntata

> Ottava puntata

> Nona puntata

> Decima puntata

>Undicesima puntata        

> Dodicesima puntata

> Tredicesima puntata

> Quattordicesima puntata

> Quindicesima puntata

> Sedicesima puntata

> Diciassettesima puntata

> Diciottesima puntata

> Diciannovesima puntata

> Ventesima puntata

> Ventunesima puntata

> Ventiduesima puntata

> Ventitreesima puntata

> Ventiquattresima puntata

> Venticinquesima puntata