L’angolo di Michele Anselmi
Nessuno dei film passati in concorso alla recente Mostra del cinema di Venezia se la sta passando bene in sala; neppure, nonostante l’uscita in centinaia di copie e il notevole battage pubblicitario, “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio e “L’immensità” di Emanuele Crialese: il primo è a 910 mila euro alla seconda settimana, il secondo a 261 mila euro dopo quattro giorni. Figuratevi quindi, con l’aria che tira, come può andare il giapponese “Love Life”, sempre in gara al Lido, e dal 9 settembre scorso nei cinema col marchio Teodora Film.
Eppure, parere personale che vale quel che vale, tra i tre è il più riuscito e interessante. Magari avrà miglior vita quando si potrà vedere su qualche piattaforma, nondimeno consiglio caldamente di fare un salto in sala e di pagare il prezzo del biglietto: sono soldi ben spesi, specie se trovate l’edizione in lingua originale con i sottotitoli.
Snobbato dalla giuria presieduta da Julianne Moore, non si capisce davvero perché, “Love Life” era l’unico film asiatico a gareggiare per il Leone d’oro in una Mostra molto, troppo, “occidentale”. Lo firma il 42enne giapponese Koji Fukada, partendo da una sua sceneggiatura.
Un tocco lieve, a tratti vagamente surreale, è intessuto alla vicenda fortemente drammatica. Riassumendo. La graziosa Taeko e il taciturno Jiro, sposati da poco, perdono di vista per un attimo il figlio seienne Keita nel giorno del suo compleanno: non sanno che è morto sbattendo la testa e finendo affogato nella vasca da bagno non svuotata. Solo che il piccolo, campione di un gioco digitale chiamato “Othello”, era figlio dell’ex compagno di Taeko: un coreano, pure spiantato e sordomuto, da anni irreperibile. L’uomo, a sorpresa, si fa vivo nel giorno dei funerali per schiaffeggiare la donna devastata dallo strazio.
Il film, divagante e profondo allo stesso tempo, benissimo recitato da attori i cui nomi a noi dicono poco o niente, racconta non solo l’elaborazione di un lutto, ma anche i morsi della solitudine e del pregiudizio, le complicate strategie dell’amore e le ipocrisie familiari, quasi pedinando i personaggi: così composti negli atteggiamenti, siamo pur sempre in Giappone, ma attraversati da pulsioni e paure, sensi di colpa e atti di redenzione. Con una sorpresa buffa in sottofinale che sembra alludere a un mezzo lieto fine (non guasta di questi tempi). L’acqua prima come fosca maledizione, poi come sollievo ristoratore.
“Mi auguro che arrivi un premio” scrivevo da Venezia durante la Mostra. Purtroppo, come s’è visto, non è successo.
Michele Anselmi