L’angolo Michele Anselmi

Mi ripeterò, ma credo che, a parte l’inglese Ken Loach e i fratelli belgi Dardenne, solo i registi francesi sappiano parlare così bene al cinema del lavoro, che c’è e non c’è. La tradizione è antica, ma direi che la conferma, l’ennesima, venga da “Un altro mondo” di Stéphane Brizé, passato in concorso a Venezia 2021 e da venerdì 1° aprile nelle sale italiane con la benemerita Movies Inspired. È il terzo capitolo di un’ideale trilogia sui temi del lavoro, tra precarietà e sfruttamento, delocalizzazioni e lotte sindacali, cominciata con “La legge del mercato” e proseguita con “In guerra”. Di nuovo, come nei due precedenti, c’è Vincent Lindon protagonista. Che stavolta fa un dirigente d’azienda, a capo di uno dei cinque stabilimenti francesi posseduti da una multinazionale americana, alle prese con una doppia crisi: professionale e familiare.
Philippe Lemesle sta per crollare: la moglie ha chiesto il divorzio e gli rinfaccia di averla fatta sentire “una nullità”, uno dei due figli dà letteralmente i numeri sul piano mentale, la dirigenza della Elsonn, ramo elettrodomestici, gli ha ordinato di licenziare 58 persone, i sindacati lo incalzano per sapere la verità che ancora non si può dire. L’uomo cerca di tamponare i diversi fronti, di affrontare con raziocinio le crepe, senza farsi risucchiare nella depressione. Ma tutto sembra inutile. Da manager stimato è diventato un pietoso “tagliateste”, ogni proposta alternativa viene bocciata dalla sua boss parigina, presto non avrà alternative.
“La mia libertà ha un costo, ma non ha un prezzo”: è la frase cruciale che Lemesle, pronto a perdere tutto ma non la propria dignità, dirà a chi lo mette di fronte a un odioso dilemma morale.
Il 62enne Vincent Lindon attraversa il film in giacca e cravatta, con quello sguardo sgualcito e insieme fiero, pressato dagli eventi e però deciso a vendere cara la pelle. Un attore magnifico, eclettico, di forte presenza fisica, credibile sia come proletario sia come borghese, uno che “parla” anche quando non proferisce una parola. Le è accanto Sandrine Kiberlain, nei panni della moglie infelice, alla quale Philippe nulla ha fatto mancare sul piano economico, se non l’affetto di un marito.
Il cinema di Brizé forse lo conoscete: fotografia a luce naturale, musica ridotta al minimo o inesistente, un piglio quasi documentaristico nel taglio delle immagini, dialoghi che non suonano mai fasulli bensì piantati nella realtà. Insieme a “Full Time” (uscito ieri) e a “Tra due mondi” (nelle sale il 7 aprile), un film implacabile sulla realtà di un lavoro sempre più precario, fragile, umiliante. In Francia il tema è sentito, dovrebbe esserlo anche in Italia. Ma chi produrrebbe oggi da noi “Un altro mondo”? Nessuno. Per trovarne uno bisogna riandare col pensiero a “Volevo solo dormirle addosso”, del 2004, diretto da Eugenio Cappuccio. Non se lo ricorda nessuno.

Michele Anselmi