Sei anni dopo il tragico incidente in cui perse la vita il marito, Amelia ancora non è riuscita a elaborare il lutto. Quella notte vita e morte decisero di incrociarsi e mentre il marito moriva, lei dava alla luce il loro primo figlio, Samuel. Da quel giorno la vita di Amelia si è fermata e mentre Samuel cresceva sempre più tormentato senza neanche avere il diritto di festeggiare il suo compleanno il giorno della sua nascita, lei è sempre più stanca e vulnerabile. Una madre divisa tra il profondo dolore per la scomparsa del marito e l’amore per un figlio che inconsciamente ritiene responsabile di quella stessa morte. Un bambino difficile da gestire, iperattivo, a tratti violento e insonne, convinto che presto arriverà un mostro determinato a uccidere entrambi. La donna è ormai al limite delle sue forze, esasperata dal comportamento del figlio e provata dalle poche ore di sonno, quando un inquietante libro di favole fa il suo ingresso nella loro casa: Babadook. Da quel momento per Amelia e Samuel non ci sarà più pace fino a un epilogo a dir poco imprevisto.

Un film audace in quanto ad essere messo in discussione è l’amore materno, l’unico del quale nessuno dubiterebbe mai, già questo di per sé rende la trama piuttosto inquietante e originale. Dopodiché, come in tutti i film horror, a giocare un ruolo decisivo è l’uso della fotografia: il grigio riempie la pellicola e aiuta lo spettatore ad immergersi totalmente nell’oscurità di una casa triste e buia come d’altronde sono le vite dei suoi inquilini. Inoltre, degna di attenzione è l’interpretazione della protagonista che assume, di volta in volta, un aspetto totalmente differente dall’altro: dapprima quello di madre provata e distrutta dal dolore, in un secondo tempo di donna terrorizzata per ciò che potrebbe accadere a lei e al figlio e, infine, di aguzzina e generatrice di paura. Con Babadook – dal 15 luglio nelle nostre sale –  il genere horror cambia volto: a far paura non sono più mostri, fantasmi o vampiri, ma qualcosa di immateriale e oscuro, senza ricorrere a impennate musicali o improvvise apparizioni, Jennifer Kent al suo primo lungometraggio riesce a giocare sulle paure che nascono dal subconscio, dal silenzio, dalla notte, da ciò che di profondo, sommerso e fragile c’è in ognuno di noi.

Stefania Scianni