L’angolo di Michele Anselmi

C’è voluto qualche mese, ma finalmente “Il Cerchio”, dopo il gioioso esordio nella benemerita rassegna Alice nella Città all’interno della Festa di Roma, arriva nelle sale. Poche e mirate, ma sempre meglio di niente, in vista del passaggio televisivo. Stasera, lunedì 6 febbraio, anteprima al cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, ore 20.30, alla presenza dell’autrice Sophie Chiarello; da lunedì 13, dopo la maratona sanremese, l’arrivo nei cinema sotto il marchio Indigo Film (coproducono Rai Cinema e Sky Documentaries).
Per chi non sapesse o ricordasse, “Il Cerchio” racconta cinque anni di vita di alcuni allievi della sezione B presso la scuola elementare “Daniele Manin”, plesso Di Donato, a un centinaio di metri da piazza Vittorio Emanuele, zona multietnica per eccellenza a Roma. Posso immaginare l’emozione della maestra Francesca Tortora, che ha vigilato con discrezione sulle riprese durate così tanto. Pensate: il montatore Andrea Campajola, insieme alla regista, ha lavorato su circa 290 ore di girato, per tirare fuori il meglio da pigiare nella versione definitiva di circa 100 minuti.
Non dirò che “i bambini ci guardano”, ma alla fine mi sono emozionato anch’io: perché vivo a pochi metri da quella scuola, lì vado a votare, lì passo spesso a piedi (la via è stata chiusa al traffico per renderla una zona-giochi al termine delle lezioni), lì mi piace ascoltare il suono delle voci, delle cadenze, osservare una possibile integrazione tra bambini che vengono da situazioni e culture le più diverse.
Con pudore estremo, solo ogni tanto forzando le situazioni, la regista Chiarello ha dato voce a questi bambini che vediamo crescere anno dopo anno, tra bocche prima sdentate e poi armoniose, acconciature e abiti che cambiano, volti che maturano e si affacciano ai palpiti irrequieti dell’adolescenza. Appunto si parte dal 2015 e si finisce nel marzo-aprile 2020, quando la pandemia relega nelle loro abitazioni questi studenti che pure vorrebbero continuare a vedersi a scuola, addirittura ripetere l’anno pur di non perdersi.
Colpisce, vedendo il film il cui titolo allude ai giochi e alle confessioni in cerchio, la sincerità anche brutale di questi bambini, soprattutto la complessità delle loro testimonianze. Sono tutti italiani, anche se con origini diverse, almeno alcuni di essi: l’egiziano, il cinese, il sudamericano, il cingalese, e via dicendo. Alcuni sono arrivati alla “Manin” reduci da traumi, “bullizzati” in altre scuole, senza sapere una parola d’italiano o quasi, trasferiti da città lontane. Portano negli occhi sofferenze ancora non metabolizzate: genitori separati che per anni si sono detestati, abitazioni inospitali e misere, regali inesistenti o ridotti all’osso sotto l’albero.
È proprio sul Natale, anzi sull’esistenza di Babbo Natale, il ciccione con la barba e l’abito rosso, che si sviluppa uno psicodramma che sembra un pezzo di gran teatro: per come la materia del contendere, a prima vista così infantile, si aggancia ai temi dell’illusione, della fantasia, della “verità”, in sostanza del crescere. Ma anche lo scontro sull’amore, un sentimento che sboccia anche a quell’età, andrebbe studiato dai nostri sceneggiatori spesso poco inventivi.
Alla domanda “Che differenza c’è tra i bambini e i grandi?”, uno risponde: “I bambini vivono di più… e giocano”. Un altro scandisce: “La fortuna combacia con la felicità: se trovi 100 euro per strada sei felice”. Un terzo teorizza: “Sono abituato ad essere solo, gli amici possono tradirti”. Un quarto, venuto da una scuola di suore, spiega: “I miei genitori non avevano esperienza dei bambini prima che io nascessi”. Le bambine sono più vivaci, intraprendenti, capaci di stringere amicizia tra loro, già dedite a sfotticchiare i maschietti che ci provano.
Tutti usano come intercalare il romanissimo “tipo…”, ma che precisione nel raccontare il proprio stato d’animo spesso ulcerato, tendente al triste, senza filtri, senza vergogna, con sprazzi di buffo realismo. Merito di Sophie Chiarello, indiscutibilmente, della sua pazienza nell’ascoltare o nel rispettare silenzi, ritrosie, sospetti.
Sui titoli di coda echeggia una canzone francese del 1974, “J’ai dix ans” di Alain Souchon, gentile e spiritosa nel testo, brillante nella melodia finger pickin’. Per una volta non suona come una scelta eccentrica, alla moda, fuori contesto: racconta i pensieri di un venticinquenne che ricorda con una punta di malizia i suoi dieci anni a scuola.
PS. A ottobre, dopo aver visto il film, ho provato varie volte a mettermi in contatto con la scuola, anche per promuovere il senso del virtuoso esperimento e rendermi utile. Nessuno mi ha mai risposto.

Michele Anselmi