Alfonso è un vecchio contadino che, per ragioni a noi sconosciute, ha abbandonato la famiglia molto tempo prima. Dopo diciassette anni, si ritrova in quella stessa casa al capezzale del figlio gravemente malato e, apparentemente remissivo, convive con quella che un tempo era sua moglie, la nuora e il nipote che conosce solo oggi. Lo scenario circostante è parecchio cambiato e, ben presto, si renderà conto che lui è l’unico in grado di poter salvare la sua famiglia.
Ciò che da subito salta all’occhio è la lentezza che caratterizza quasi tutta la durata del film. Ogni scena sembra muoversi a rallentatore in un contesto lontano da qualsiasi realtà immaginabile. Immersi tra le piantagioni di canna da zucchero, si respira un’aria rarefatta provocata dalle incessanti piogge di cenere dovute ai numerosi incendi per lo sfruttamento dei campi. In mezzo al nulla, una fattoria che non produce nulla. Terra, afa e desolazione. Non a caso la fotografia è spesso scura e quando si intravede un po’ di luce, l’immagine è opaca e decisamente ovattata. Infiniti i primi piani, molti i dettagli sui quali il regista vorrebbe che lo spettatore rivolgesse l’attenzione tentando di dare risalto agli innegabili risvolti drammatici presenti sia nella storia familiare che nello sfondo sociale.
Nonostante ciò, i fermo-immagine di questo racconto eccessivamente minimalista ed essenziale sono troppo lunghi e, nell’attesa che succeda qualche cosa, si guarda troppo spesso l’orologio. La messa in scena è ben studiata, precisa e pulita, il colombiano César Acevedo, al suo esordio, sembra possedere tutti i requisiti per poter avere una carriera brillante; ha indubbiamente talento, ma la trama poco consistente, i personaggi poco approfonditi e le dinamiche tra di loro poco definite di Un mondo fragile svolgono un ruolo decisivo nel coinvolgimento dello spettatore, benché le tematiche trattate siano in sé degne di riflessione.
Stefania Scianni