In un’epoca dove il cinema commerciale punta sempre di più sugli effetti speciali e sul 3D per compensare la carenza di storie interessanti, la condizione dello spettatore è quanto mai problematica. Catturato dalla fantasmagoria spettacolare di spettri immaginari che danzano davanti ai suoi occhi, è portato a dimenticare che quella davanti ai suoi occhi è un’immagine mediata, stratificata, con una storia alle spalle. Esiste tutto un altro genere di cinema, che molti definiscono critico-espressivo (Pezzella, 2010), capace di mettere in discussione questo primato dell’irrealtà e di (ri)mettere in evidenza il carattere anche fisico del cinema, mostrandoci come il nostro sguardo debba essere gettato nel mondo.

Centrale è, in questo genere di lavori, il concetto di intervallo cinematografico. Non è facile definire quello che più di un elemento facilmente rintracciabile nei film è un modo di pensare le immagini. Parleremo quindi di “cinema dell’intervallo” per categorizzare tutto un genere di lavori (anche ai limiti del linguaggio filmico, si pensi a Blue di Derek Jarman) che cerca di mostrare come il nostro sguardo possa e debba essere – per dirla con Marleau-Ponty – soggetto e oggetto della visione, vedente e visibile.

Uno dei modi attraverso cui sembra essere possibile abbracciare questa nuova sensibilità, che dovrebbe portare alla nascita di un nuovo “tipo spettatoriale”, finalmente consapevole di sé e delle immagini, sembra essere la tecnica del found footage, vale a dire la pratica di montare insieme pezzi “d’archivio” per creare nuovi testi dotati di significato. Nel suo libro Tra le immagini – per una teoria dell’intervallo (Falsopiano, 2012), Massimiliano Fierro dedica un capitolo al tema, analizzando alcuni dei film del regista Peter Tscherkkasy. L’esempio in effetti è ottimo, ma si tratta di un cineasta che lavora in modi molto particolari e complessi, creando pellicole di grande impatto ma di difficile lettura. Proprio per questo cercheremo di arrivare alle sue stesse conclusioni attraverso due esempi tratti da altrettanti film della regista italo-svizzera Alina Marazzi.

Una delle sequenze iniziali di Un’ora sola ti vorrei, in cui la Marazzi ricostruisce la storia della madre morta suicida attraverso i filmini di famiglia, ci presenta un disco in vinile che inizia a suonare. Mai immagine fu più programmatica. Così nell’ascolto della musica di un giradischi, se prestiamo attenzione, potremo sentire anche “il fruscio discontinuo provocato dal graffio della puntina nella traccia”, un rumore che non appartiene al flusso sonoro della canzone, ma fa comunque parte del nostro ascolto. Allo stesso modo, in certi film (come quelli di Tscherkkasky e della Marazzi) oltre al racconto diegetico e visibile offerto dalle immagini, potremo vedere qualcosa che le eccede e che ci chiama in causa direttamente, in qualità di spettatori vedenti (e pensanti).

La cosa è anche più evidente in una sequenza di Vogliamo anche le rose, documentario sulla genesi e gli sviluppi del femminismo in Italia in cui, dopo averci presentato una scena nella quale un uomo e una donna stanno per fare sesso, oscura l’immagine. Lo spettatore rimane straniato da questa scelta e, ascoltando i gemiti della coppia senza poter vedere le loro azioni, capisce di essere di fronte a un’immagine che lo chiama in causa come spettatore. Subito dopo la regista scioglie il dubbio, mostrandoci che quella scena con due giovani protagonisti era in realtà doppiata da due attempati signori.

Svelando i meccanismi della finzione, mostrandoci come l’immagine cinematografica sia intrinsecamente opaca, Alina Marazzi cerca di riattivare la nostra coscienza critica, invitandoci a uscire dallo stato di anestesia in cui il cinema contemporaneo sembra averci fatto precipitare.

Giuseppe Previtali