La Mostra di Michele Anselmi | 4
“I romani davano in pasto ai leoni i cristiani. Noi gli ebrei”. Il senso di “J’accuse”, lo straordinario film dell’86enne Roman Polanski in concorso alla 76ª Mostra veneziana, sta in buona misura in questa battuta orribile, ma rivelatrice, che un alto ufficiale dell’esercito francese fa gorgogliare da un sentire profondo nell’osservare il capitano Alfred Dreyfus degradato teatralmente nel cortile dell’École Militaire a Parigi, il 15 gennaio 1895, prima di essere spedito coi ceppi nella lontana Isola del Diavolo, Guyana francese (sì, quella di “Papillon”).
C’è da augurarsi che Lucrecia Martel, la presidente della giuria protagonista di un’infelice uscita contro Polanski, sappia valutare con la giusta obbiettività il film, davvero notevole e giustamente applaudito da critici e festivalieri: per rigore storico, stile inappuntabile, prova degli attori, ricostruzione d’ambiente, senso dello spettacolo. Il regista franco-polacco, di origini ebraiche, ha lavorato a lungo sul copione insieme allo scrittore Robert Harris, autore a sua volta di un romanzo-reportage, “L’ufficiale e la spia”, edito da Mondadori, che racconta il famoso “affaire Dreyfus” dal punta di vista del colonnello Georges Picquart.
Chi è Picquart? Un alto ufficiale che non ama gli ebrei, come tanti nella Francia non solo di allora. Promosso al comando di un’unita dei servizi segreti (la descrizione del palazzo è bellissima nel film), Picquart si rende presto conto di quanto siano inconsistenti le accuse di alto tradimento nei confronti di quel collega del 14° Reggimento artiglieria. Dreyfus è accusato di aver passato, per denaro, informazioni militari agli alti comandi tedeschi, ma presto emerge un quadro diverso, alla faccia delle “prove” grafologiche, delle dicerie e delle congetture.
La vera spia si chiama Walsin Esterhazy, ma a quel punto esercito e governo fanno fronte comune per non riaprire il caso e riabilitare l’innocente ebreo sepolto vivo su quell’isola. Solo Picquart, mettendo in gioco carriera e onore, addirittura finendo in carcere, sfiderà la congiura del silenzio, creduto dallo scrittore socialista Émile Zola, che il 13 gennaio 1898 scrive sulla prima pagina di “L’Aurore” un’accurata e vibrante lettera aperta al presidente francese Félix Faure intitolata: “J’accuse” (da qui il titolo del film).
Jean Dujardin e Louis Garrel incarnano Picquart e Dreyfus, e solo il breve dialogo tra i due militari nella scena finale, ambientata nel 1906, dodici anni dopo l’inizio della vergognosa vicenda, vale il prezzo del biglietto. Ma tutti gli interpreti si intonano alla ricostruzione prodigiosa di una vergogna di Stato nel quale confluirono antisemitismo, viltà, corruzione, meschinità, depistaggi. Insomma un gran film, di quelli che intrecciano sdegno e denuncia senza sacrificare “il fattore umano”. Uscirà il 21 novembre con 01-Raicinema; coproduce Luca Barbareschi, oggi qui al Lido senza kippah, e pure attore sullo schermo nei panni di un alto funzionario cornuto.
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Giornata piena alla Mostra. Con Polanski è sceso in gara anche l’italiano Mario Martone, di nuovo qui al Lido a un anno dal suo “Capri Revolution”. Il regista napoletano stavolta si cimenta con Eduardo De Filippo portando sullo schermo, sulla scorta di un suo allestimento teatrale del 2017, una versione moderna della commedia tragica “Il sindaco del rione Sanità”, scritta nel 1960. Dopo le prime repliche, di fronte a qualche malinteso, De Filippo spiegò che “la camorra è solo un pretesto per elevare Antonio Barracano a simbolo, con lui muore un simbolo”. Già all’epoca gli americani avrebbero voluto farne un film con Anthony Quinn, ma il drammaturgo negò i diritti. Poi il film si fece lo stesso nel 1996, proprio con Quinn nei panni del “sindaco” e la vicenda trasportata nella Chicago degli anni Cinquanta. Un disastro.
Anche Martone fa prendere un po’ d’aria alla commedia e la proietta nel mondo di “Gomorra” & affini. La locandina pop, che ritrae l’attore protagonista Francesco Di Leva con sguardo da truce camorrista e dietro gli occhi giganti di una tigre, evoca un clima da film d’azione, dove si spara e si regolano conti. Ma è solo una suggestione, perché, esaurito l’incipit notturno “in esterni”, il film si rinchiude per due dei tre atti nella villa sotto il Vesuvio dove il boss Barracano passa alcuni mesi all’anno con la sua amata famigliola e le guardie del corpo.
Se “il sindaco” di De Filippo aveva 75 anni, indossava giacche da camera e portava i capelli a spazzola, quello di Martone è appena quarantenne, veste di nero, preferibilmente capi di pelle, e sfoggia un taglio da guerriero “mohicano”. Ricco, scaltro e potente, l’ex capraio è un “uomo d’onore” che amministra la giustizia a modo suo, con carismatica saggezza, ricomponendo contrasti e aggiustando le cose a volte sul filo di un teatrale paradosso (la sequenza dei soldi invisibili). Finché, la faccio breve, non si trova di fronte lo scalpitante Rafiluccio, che vuole sparare al padre, il ricco e onesto panettiere Arturo Santaniello, sentendosi abbandonato e umiliato.
Chi conosce l’originale sa che Barracano rivede in quel giovane deciso a uccidere un sentimento assoluto di vendetta vissuto sulla propria pelle tanti anni prima, quando la rabbia armò la sua mano di un coltello. E un’altra lama spunterà fuori nel terzo ultimo atto, il più astratto e “morale”, stavolta ambientato nel cuore del rione Sanità, tra muri sgarrupati e arredi kitsch, mentre il destino si compie con esiti funesti lasciando al “sindaco” l’unica scelta possibile per evitare una futura faida.
Benché una scritta dica “Sceneggiatura tratta integralmente dalla commedia di Eduardo De Filippo”, Martone ha espunto il monologo cruciale contenuto nell’epilogo, quando il dottore Fabio Della Ragione, dopo la morte violenta di Barracano, si sottrae alle indicazioni dell’amico “sindaco” e redige un verbale che dice tutta la verità sugli eventi.
Perché l’ha fatto? Si direbbe per stemperare il pessimismo di fondo di Eduardo, anche per introdurre una nota di speranza, affinché il sacrificio del boss non sia tragicamente vano, semmai alto, nobile, lungimirante.
Girato in quattro settimane e scandito dalle canzoni rap di Ralph P, il film sfodera una certa estetica “gomorrista” (gesti, pistole, facce, abiti, sguardi, dinamiche) continuamente contraddetta/nobilitata dal testo eduardiano, adattato da Martone e da Ippolita di Majo. L’effetto è a tratti spiazzante, ma l’operazione è legittima: un po’ come se Tarantino o Scorsese mettessero i loro gangster a confronto con una pièce di Pinter per vedere l’effetto che fa (affiora pure qualche citazione hitchcokiana nel finale).
Sedici gli interpreti convocati da Martone, tutti bravi, anche se la partita vera si gioca tra Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo e Roberto De Francesco, rispettivamente nei ruolo di Barracano, Santaniello e del dottore Della Ragione. Dopo l’anteprima veneziana il film, prodotto da Indigo e Raicinema, uscirà nelle sale solo per tre giorni (30 settembre, 1 e 2 ottobre) con Nexo Digital, in vista del ravvicinato sfruttamento televisivo.
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Infine l’americano “Seberg” di Benedict Andrews, messo tra i “fuori concorso”, forse non a caso nella giornata di “J’accuse”. Vi si raccontano alcuni momenti cruciali nella vita dell’attrice statunitense Jean Seberg, nata nella rurale Iowa, lanciata da Preminger con “Santa Giovanna” e ascesa a musa della Nouvelle Vague con “Fino all’ultimo respiro” di Godard. Fu bella e infelice, icona di stile coi suoi capelli corti e spettinati nonché star in bilico tra cinema d’autore e filmoni americani; e certo pagò caro il suo trasporto amoroso per l’attivista nero Hakim Jamal allorché finì nel mirino dell’Fbi di Hoover. Sullo schermo è Kristin Stewart, ormai affrancata dalla stagione di “Twilight”, a incarnare Jean Seberg, colta negli anni del suo matrimonio francese con Romain Gary, mentre Hollywood la rivuole per “La ballata della città senza nome” e “Airport”. Tornata in patria, l’attrice finanzia le Pantere Nere e tradisce il marito con Hakim, senza immaginare che la sua reputazione sta per essere distrutta dai federali intenti a spiarla in ogni suo movimento. Il film restituisce onestamente idealismo e ingenuità della campagnola finita nel giro intellettuale dell’epoca. Per la cronaca, Seberg morì suicida nel 1979, appena quarantenne, lasciando un biglietto con su scritto: “Forgive me. I can no longer live with my nerves”.
Michele Anselmi