L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Marchese la conosci tu?
Marchese la conosci tu?
Chi è quella graziosa?
Ed il marchese disse al re:
Maestà è la mia sposa.

Il regista Giorgio Amato racconta che lo spunto del suo film “Il ministro” viene da una bella, e per nulla secondaria, canzone di Fabrizio De André, incisa nel lontano 1968, a sua volta presa da una melodia francese del XIV secolo, appunto “Il re fa rullare i tamburi”. Nella ballata medioevale il sovrano s’incapriccia a una festa dell’abbagliante moglie del marchese, e quello, per compiacere il sovrano, gliela concede, con l’assenso, forse, dell’interessata, in cambio di futuri vantaggi. Non accade proprio la stessa cosa nel film, girato in tre settimane, a basso costo, quasi tutto in interni, nelle sale dal 5 maggio con EuroPictures; ma secondo il regista siamo lì: «Il vero tema è l’asservimento dell’essere umano nei confronti del potere. Ancora oggi la questione morale è un problema irrisolto e di stretta attualità». Già, basterebbe leggere le prime pagine dei giornali.
Purtroppo, però, “Il ministro” (da non confondere con l’omonimo film francese del 2011 firmato da Pierre Schöller) non mantiene quel che promette: è sentenzioso, recitato maluccio, tagliato drammaturgicamente con l’accetta, scritto così così, anche se Amato confessa di essersi ispirato a fatti reali, oltre che alla grande scuola della commedia italiana. In particolare, per la precisione, a un episodio dei “Mostri”, intitolato “L’educazione sentimentale”, protagonisti Ugo Tognazzi e il figlio Ricky. Quasi 53 anni dopo è un altro Tognazzi, Gianmarco, ornato di parrucchino per l’occasione, a prendere in mano il testimone nei panni di Franco Lucci, un imprenditore sull’orlo della bancarotta. L’unico modo per salvarsi è ottenere un sontuoso appalto pubblico dal potente ministro Rolando Giardi, altrimenti può dire addio a benessere, casa, società e status. Così escogita un piano: l’uomo di governo è sensibile al buon cibo e alla bellezza muliebre, oltre che ad una corposa mazzetta, una “cena elegante” potrebbe fare alla bisogna. Solo che la escort pagata da Lucci e già “assaggiata” dal suo socio e cognato Michele è finita investita da un’auto all’ultimo momento, sicché c’è da trovare in fretta e furia una sostituta in grado di titillare il ministro.
In bilico tra grottesco e tragico, con affondi comici e un’orgetta inattesa a sigillare il tutto con effetti indesiderati, “Il ministro” raffigura un’Italia vorace e meschina, cinica e tronfia, affidando ai sei personaggi del “kammerspiel” il compito di svelare via via le notevoli bassezze dell’animo umano. Nessuno è innocente su quel palcoscenico: il faccendiere disperato (Tognazzi), la moglie insoddisfatta e vegana (Alessia Barela), il socio esasperato (Edoardo Pesce), la colf nera non così integerrima come sembra (Ira Fronten), la sofisticata “ballerina” asiatica ingaggiata in extremis (Jun Ichikawa) e naturalmente il ministro ingordo e corrotto (Fortunato Cerlino).
Non è la prima volta che il cinema si cimenta con l’argomento, viene da pensare, tra cose recenti, a “Commediasexi” di Alessandro D’Alatri, a “Viva l’Italia” di Massimiliano Bruno, a “Suburra” di Stefano Sollima; e si può anche riconoscere a Giorgio Amato e ai suoi interpreti il piacere acre di non fare sconti a nessuno, in una chiave di pessimismo assoluto, di desolante grettezza, di mostruosa aridità. Però è il film, più misero più che povero, a non reggere nel suo insieme, specie quando cerca la battuta sarcastica, il dettaglio pruriginoso da mondo delle “olgettine”. Frase ad alto tasso simbolico (la dice Tognazzi): «Esistono solo tre momenti importanti nella vita. Quando si nasce, quando si muore e quando si svolta».

Michele Anselmi