“Un anello per domarli tutti”. Sono trascorsi ormai undici anni da quando questa frase – già nota agli appassionati della monumentale opera letterari di J.R.R. Tolkien – ha iniziato a fiorire sulle bocche di tutti, soprattutto su quelle di chi non aveva mai letto una pagina del libro da cui la granitica trilogia di Peter Jackson fu tratta. Sulle prime la notizia relativa all’impresa in cui il regista e la New Line Cinema avevano deciso di imbarcarsi entusiasmò e allo stesso tempo allarmò i fan: nel corso dei decenni molti ci avevano già provato, fallendo. Persino i Beatles tentarono di portare sul grande schermo la saga, senza però riuscirci, dal momento che l’idea di trasformare l’opera in una sorta di musical psichedelico, come sarebbe dovuto essere, non allettava affatto l’autore.
Non parliamo poi del lungometraggio animato ispirato a La Compagnia dell’anello che negli anni ’70 la Warner produsse, pregevole, ma che fu un insuccesso al botteghino. Insomma, Jackson riuscì dove negli anni molti avevano fallito e questo per un semplice, ma essenziale motivo: la sua umile lungimiranza; fin dall’inizio era chiaro che si sarebbe trattata di una vera e propria impresa titanica: riuscire a realizzare una serie di film che apparissero spettacolari per il grande pubblico (spesso ignorante in materia di fantasy), ma che allo stesso tempo avrebbero dovuto lasciare soddisfatti i fan che ben conoscevano (per non dire ‘veneravano’) la saga letteraria, cosa per nulla facile, se consideriamo la mole della materia.
Ma il regista Neozelandese, che fin dagli esordi della sua carriera si era distinto per la grande creatività (basti pensare agli ‘effettacci’ geniali ed efficacissimi impiegati in Fuori di testa e Splatters – Gli schizzacervelli), da grande conoscitore non solo dell’opera in sé, ma dell’intero universo letterario creato da Tolkien, ha saputo riorganizzare i numerosi personaggi e la trama tanto complicata nel suo svolgimento (soprattutto a livello politico-geografico) creando così quella che è probabilmente una delle saghe più imponenti e maestose della storia del cinema. La regia è potente, in grado di rendere al meglio le ambientazioni quanto mai suggestive (grazie anche ai meravigliosi paesaggi della Nuova Zelanda, dove il film è stato girato per la gran parte), soprattutto nelle battaglie: la macchina da presa non perde il minimo dettaglio e la confusione tipica degli scontri di stampo medievale in campo aperto non urtano la vista dello spettatore, non perdendo mai di chiarezza.
L’intera trilogia affonda le sue intricate radici in un terreno coltivato con cura da Jackson e dalla produzione: dalle scelte degli attori, misurate e azzeccatissime (sebbene l’inaspettata giovane età di Frodo, interpretato da Elijah Wood, abbia lasciato sbalorditi i fan, sulle prime), alle musiche epiche e magniloquenti, agli effetti speciali avanzati anche per l’epoca e realizzati dalla WETA, casa di produzione fondata dallo stesso regista.
Il Signore degli Anelli è indubbiamente un capolavoro che si può guardare e riguardare senza mai annoiarsi, ma la cosa che Jackson è riuscito a ricreare maggiormente è l’atmosfera magica e al tempo stesso realistica dell’opera originale, pur cambiando alcuni dettagli anche importanti (il finale e la morte di Saruman reperibile nell’extended versione de Il ritorno del Re, ben congeniata, ma decisamente differente rispetto a come avviene nel libro), che però sono comprensibili, visto la già vasta mole delle tre pellicole. Accettato qualche piccolo compromesso, è impossibile essere severi con il capolavoro di Jackson, il quale ha ricominciato a fare parlare di sé con la sua ultima fatica, la prima parte di Lo Hobbit, prequel della trilogia in sala da ieri. Se il livello si sia alzato o abbassato, lo giudicheremo a mente fredda.
Victor Laszlo