“Una vita in fuga” (il titolo originale è il ben più iconico “Flag Day”) è il sesto film diretto da Sean Penn in uscita nelle sale italiane il 31 marzo. Presentato al Festival di Cannes del 2021, la pellicola vede recitare per la prima volta l’attore americano in un suo film e, nell’impresa, è coadiuvato anche dai suoi due figli, Dylan e Hopper Jack. Il commovente lungometraggio, ispirato ad una storia vera, ripercorre la drammatica parabola di John Vogel, il più noto falsario americano, attraverso gli occhi della sua primogenita Jennifer. Nel corso delle tre decadi durante le quali si dipana la trama, la protagonista vive il progressivo disincanto causato dallo sbiadire dell’immagine utopica che aveva di suo padre durante l’infanzia, scoprendo una realtà ben più oscura che le è stata per molto tempo celata.
Il punto di forza della pellicola è proprio l’intensità con la quale tratta, anche a livello visivo, le amare tematiche della nostalgia, del rimpianto e della redenzione. Penn riesce a dipingere efficacemente il personaggio di John Vogel filtrandone i tratti caratteriali attraverso gli empatici occhi di sua figlia. I ricordi sono evanescenti, la memoria confusa ed opaca come una polaroid ormai sbiadita. Nelle prime sequenze della pellicola il personaggio interpretato dall’attore americano viene mostrato solamente attraverso la sua silhouette in controluce, negando allo spettatore la vista del suo volto. Si intuisce sin da subito che quello a cui si sta assistendo sono dolci e ovattati ricordi d’infanzia in cui Jennifer considerava il padre, come ogni bambina, un eroe. Il regista predilige, non a caso, emotivi primi e primissimi piani che ricordano esplicitamente gli amatoriali film di famiglia di una qualche vacanza estiva ormai lontana, utilizzando a più riprese anche il formato del super 8. Inoltre, “Una vita in fuga” è stato appositamente girato interamente in pellicola per ricreare, attraverso le imperfezioni della grana filmica, l’estetica di un ricordo i cui contorni sono stati ormai smussati dall’inesorabile passare del tempo.
La storia è narrata attraverso un lungo flashback e, tramite la voce fuori campo di Jennifer, ripercorre gli oltre tre decenni che hanno legato il loro travagliato rapporto. Il presente ed il passato si intrecciano a più riprese dialogando dialetticamente grazie anche ad un montaggio che cerca di ricucirne la distanza, contrapponendo odierni rimorsi e rimpianti con le cause che, in qualche assolato giorno ormai lontano, hanno contribuito a piantarne il seme. La maestria di Sean Penn risiede proprio nell’essere riuscito a bilanciare l’immagine fiabesca che Jennifer aveva di suo padre con il punto di vista amaro e disilluso che la protagonista assume nei suoi confronti col passare dell’età. La presenza di John aleggia, appunto, sulla vita della figlia come un fantasma. Nei quindici anni in cui il falsario è rinchiuso in carcere Jennifer riesce, a differenza del padre, a costruire il suo futuro diventando una giornalista d’inchiesta e lasciandosi alle spalle un passato di tossicodipendenza e abbandono scolastico. La vita di John, invece, rimane bloccata in un limbo tossico di sogni infranti, in cerca di un riscatto sempre più distante che otterrà, a suo modo, durante il drammatico finale della pellicola. A musicare le atmosfere del lungometraggio ci pensano le struggenti e dolci ballate acustiche di artisti del calibro di Cat Power, Glen Hansard ed Eddie Vedder, quest’ultimo firmando una nuova collaborazione col regista americano dopo la premiata colonna sonora di “Into the Wild – Nellle Terre Selvagge”. Il film emoziona, oltre che per un ottimo comparto tecnico, anche grazie alle potenti interpretazioni degli attori protagonisti che riescono a far tesoro delle loro reali dinamiche padre-figlia, ibridandole con quelle scaturite da “Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life”, libro su cui si basa la solida sceneggiatura scritta da Jez e John Henry Butterworth.
In conclusione, la sesta fatica di Sean Penn in qualità di regista è un film poetico, dolceamaro, in cui, per quasi due ore, la lontananza fra il passato ed il presente collassa in favore di un dramma profondo capace di ricucire la distanza tra ieri ed oggi. Almeno fino allo struggente finale, in cui la protagonista si libererà, definitivamente, dei fantasmi del suo passato. Guardando finalmente avanti.

Gioele Barsotti