Stati Uniti, anni Trenta. La nazione si è appena lasciata alle spalle la crisi economica del 1929 e sta faticosamente cercando di ripartire, mentre nelle città lo strapotere della criminalità organizzata si fa sempre più ingerente (si veda il grande flashback storico di Il padrino al riguardo). Proprio questo è il contesto che Lars von Trier sceglie per uno dei suoi progetti più ambizioni, la trilogia “USA: terra delle opportunità” in cui, recuperando una struttura tripartita non priva di significati che potrebbero essere accostati alla sacralità, il cineasta mette in scena le vicissitudini di Grace, giovane idealista di larghe vedute.

Il trittico, ancora incompiuto (e bisognerebbe chiedersi se lo sarà mai, dal momento che l’uscita di Washington era prevista per il 2007), rappresenta una gigantesca summa del cinema di von Trier così come ha cominciato a configurarsi dai tempi del Dogma. Come un poema epico (post)moderno, esso accompagna la protagonista Grace e lo spettatore in un viaggio attraverso l’America, raccontata (con una tecnica recuperata proprio dal registro delle epopee cavalleresche) attraverso esempi e situazioni paradigmatiche.

L’indagine che sottende questo genere di operazione è però ben lungi dal presentarsi come un pedissequo esercizio di stile che potrebbe lasciar sospettare, attraverso un uso eccessivo dei medesimi espedienti retorici, una deriva manieristica del modo di fare cinema di von Trier. Come se volesse mettere per immagini un saggio di Anna Arendt, il regista ci interroga, con i suoi soliti accenti provocatori, sulle strategie del potere e dell’aggregazione sociale, isolando dei piccoli spazi rappresentativi che assurgono, come dicevamo prima, a un ruolo di Assoluti.

C’è poi, nell’atto che von Trier mette in cantiere, una componente scientifico-voyeuristica che non può essere dimenticata: l’assenza di elementi scenografici e la completa potenza della visione registico-spettatoriale danno a Dogville e Manderlay l’aria di essere degli esperimenti di entomologia, condotti da un ricercatore particolarmente scrupoloso. In quei ritagli di vita sociale e individuale che ci vengono messi davanti agli occhi non facciamo altro che assistere passivamente allo sviluppo di una sistema che, dopo una perturbazione iniziale (l’arrivo di Grace in entrambe le pellicole), cerca faticosamente di riacquistare una condizione di equilibrio (ed è interessante notare come il tipo di stabilità raggiunta sia sempre dinamica e soggetta a nuove perturbazioni, che potrebbero ricollegarsi anche a una riflessione sulla presenza di una qualche specie di “effetto farfalla” nelle opere in questione).

Un ulteriore aspetto che teniamo a sottolineare è che, forse anche a dispetto di quanto volesse l’autore, le pellicole messe in scena hanno finito con il dare l’impressione di possedere uno spiccato e pregnante significato etico, come a dire che l’esperimento condotto dall’occhio cinematografico sulle comunità ideali (ma molto, troppo umane) di DogvilleManderlay dovrebbe servire da esempio per la costruzione di una società più consapevole e per la correzione di quelle derive che troppo spesso compromettono la nostra esistenza, al di là della bontà iniziale delle intuizioni che le hanno generate.

Siamo fermamente convinti che, per trattare adeguatamente di un lavoro ambizioso come “USA: terra delle opportunità” sarebbe necessario spendere fiumi di inchiostro, ma dato anche che la letteratura in materia sembra ancora essere piuttosto povera di riferimenti, ci è sembrato interessante proporre una serie di spunti interpretativi che potessero fungere da guida, anche per lo spettatore meno specialistico, al fine di trovare una personale chiave di lettura.

Giuseppe Previtali