A 22 anni da “Basquiat”, Julian Schnabel riprende il tema della vita d’artista attraverso la storia di Vincent Van Gogh (Willem Dafoe) a partire da Arles fino ai suoi ultimi giorni a Saint-Rémy-de-Provence, saltando completamente il passato in Olanda e i motivi per i quali l’artista arrivò a Parigi. Vincent è un artista che vuol far parte della grande famiglia post-impressionista, ma l’esclusione da parte del gruppo e la mancanza di luce nella grigia Parigi fanno sì che si trasferisca ad Arles (soprattutto grazie all’aiuto di suo fratello Theo), nel sud della Francia, dove finalmente può catturare il colore e la luce del sole. I bei tempi durano poco; la nevrosi, la “passione febbrile”, la tossicità dell’eterno evasore Paul Gauguin (Oscar Isaac) e la paura di essere solo lo portano ad una crisi isterica che colmerà con il taglio dell’orecchio sinistro. La cittadina di Arles non vuole più sentir parlare di quell’olandese nella “casa gialla” e Van Gogh sarà obbligato a trasferirsi nella casa di cura a Saint-Rémy dove, nonostante l’aiuto e le cure del dottor Gachet (Mathieu Amalric), si suiciderà sparandosi un colpo allo stomaco per morire soltanto tre giorni dopo.
Schnabel dirige una pellicola disinteressata alla follia dell’artista, ma più vicina alla sua condizione di essere umano sensibile, tragico, illuso, spaventato e non figlio del suo tempo. Van Gogh non era pazzo, ma solo un uomo incompreso, un artista disperato che cercava di catturare nelle sue opere la bellezza della natura con un tratto materico, quasi scultoreo.
Il regista sceglie intelligentemente di mostrare le crisi nervose dell’artista attraverso lo schermo nero, dando così la sensazione di perdizione totale causato dalle intense emozioni, evitando performance discutibili, come accadde in “Brama di vivere” (1956) di Vincent Minnelli, con Kirk Douglas nei panni dell’artista olandese.
Willem Dafoe, nominato al Golden Globe per questo ruolo, riesce ad incarnare perfettamente il ruolo di un uomo disperato nel voler essere riconosciuto, ma anche misero nella sua condizione di essere dipendente economicamente dal fratello. Il suo Van Gogh vive una perenne nevrosi, una bomba atomica pronta a scoppiare in qualunque momento che, una volta passata, non fa serbare il suo ricordo.
Forse il lato negativo della pellicola è che il tutto viene analizzato con leggerezza, soprattutto il rapporto tra l’artista con Theo, Gauguin e il dottor Gachet; tre persone fondamentali nella sua vita, ma che qui risultano solo essere di passaggio, quasi senza importanza. In conclusione, “Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità” potrebbe deludere sia chi ha una buona conoscenza della storia dell’arte, sia chi non conosce le vicende dell’artista, in quanto paradossalmente dà per scontato che lo spettatore sappia tutto. In sala dal 3 gennaio.
Sarah Shaqiri