L’angolo di Michele Anselmi

Confesso: non avevo mai visto “Il piccolo grande uomo” in lingua originale, cioè in inglese coi sottotitoli. Paramount+ offre adesso l’opportunità, così, in cerca di un western d’antan, ieri sera mi ci sono fiondato. Non che fosse stato doppiato male, all’epoca, cioè nel 1970, con Ferruccio Amendola chiamato a “fare” Dustin Hoffman, ovvero Jack Crabb: il 121enne dal viso pieno di rughe e grinze che ricorda l’infanzia tra i Cheyenne che l’adottarono, dolori e felicità, esperienze e sconfitte, fino alla battaglia di Little Big Horn, 1876, dove fu l’unico bianco sopravvissuto. Ma certo la voce di Hoffman è un’altra cosa: nel senso che è la sua, e fa la differenza.
Arthur Penn è stato un magnifico regista, sempre rimpianto, non solo da me. E quel film, gran successo all’epoca, fa tutt’uno con il coevo “Soldato blu”, intendo nella rivalutazione della condizione di vita dei nativi americani, insomma gli indiani o “pellerossa” che dir si voglia. Più tardi, negli anni Novanta, “Balla coi lupi” di Kevin Costner e “Geronimo” di Walter Hill avrebbero espresso ancora meglio il concetto.
Rivisto oggi, “Il piccolo grande uomo” suona un po’ strano. Il tono da commedia picaresca, sia pure accarezzata dalle sonorità blues della colonna sonora curata da John Hammond, spiazza lo spettatore, all’inizio qualcosa non torna, tutto è un po’ all’acqua di rose rispetto agli standard attuali di realismo. Fu una scelta voluta da Penn, per rendere più “leggero” il racconto, che strada facendo invece volge al cupo, con i massacri perpetrati dalle giacche blu del generale Custer, reso sullo schermo come un pazzoide vanitoso e irresponsabile.
Di sicuro Hoffman era già troppo grandicello, aveva 33 anni, per incarnare l’adolescente brufoloso maliziosamente lavato nella vasca dalla più matura e “peccatrice” Faye Dunaway (in realtà solo tre anni più giovane dell’attore), e talvolta fa troppo le facce e le mossette per rendere la goffaggine del personaggio; ma il cinema vive di convenzioni e soprattutto allora non ci si faceva tanto caso.
Eppure “Il piccolo grande uomo” resta un film interessante, riuscito, anche coinvolgente, abile nel suo giocare allegramente con gli stereotipi del Far West, scherzando sulla saggezza senile del vecchio capo cieco Cotenna di Bisonte (“Oggi è un buon giorno per morire”) e sugli inciampi dell’esistenza, ma senza tacere gli effetti della violenza sugli “esseri umani”.
L’ultima scena, con il valetudinario Jack Crabb che congeda il giornalista nell’ospizio e ammutolisce, come sentendosi avvolto da una solitudine abissale, è di quelle che ti mandano a letto con un senso di toccante malinconia.

Michele Anselmi