L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Chiarita la faccenda con l’ufficio stampa, nel senso che sono stato invitato il 28 aprile ma sul mio computer non c’è traccia della relativa e-mail, eccomi a scrivere qualche pensierino sparso su “Indizi di felicità”. Trattasi del terzo documentario di Walter Veltroni, dopo “Quando c’era Berlinguer” e “I bambini sanno”, sarà nelle sale il 22, 23 e 24 maggio con Nexo Digital prima del passaggio sulle reti Sky, coproduce la Palomar.
Com’era facile prevedere, “Indizi di felicità” ha avuto un’ottima accoglienza sui giornali cartacei, anche per la sventagliata di firme illustri mobilitata dall’autore, e una schidionata di stroncature (o quasi) sui siti Internet o su Facebook, dov’è più agile sfotticchiare e buttarla sul cinefilo. Di sicuro ogni nuovo film di Veltroni non passa inosservato, e la ragione è semplice: l’uomo è eclettico, gode di un certo prestigio, e bisogna riconoscere che ha saputo/voluto mettersi in gioco dopo aver dato un mezzo addio alla politica militante, di partito.
Nel presentare questo terzo cine-cimento, il regista scrive: “Si può essere felici in un mondo così duro, difficile?”. “La felicità esiste, forse, solo se condivisa”. “In fondo al tunnel c’è, ci deve essere, una luce”. “La felicità è una farfalla, non uno scoglio. Vola, non sta”. Già queste frasi, molto veltroniane, rivelano il punto di vista del film, che cuce insieme una trentina di testimonianze esemplari, strette tra un irenico prologo in metropolitana al suono di “Over the Rainbow”, subito seguito da un catalogo visivo degli orrori odierni, e un epilogo in stile “Ballando ballando” al suono di “Singin’ in the Rain”.
Del resto, “Indizi di felicità” è dedicato “a Ettore”, cioè Ettore Scola, quindi tutto torna. Anche se il vero modello di riferimento rimane Sergio Zavoli: è al tele-giornalista di “Viaggio intorno all’uomo” che Veltroni guarda costantemente nell’allestire i suoi documentari. Vale per la voce fuori campo dell’intervistatore, per il tono quieto e amichevole e delle domande, per il contesto ambientale delle testimonianze; se non fosse che Veltroni, alla fine, parla sempre di sé, un po’ come Tornatore nei suoi film, quasi cercando nelle parole di quelle persone scovate con cura un antidoto allo sconforto, alla sfiducia, al pessimismo, un motivo per tornare a credere in un futuro possibile. Non a caso le musiche pianistiche di Danilo Rea, stavolta usate con più cura che in passato, corrispondono a un sentimento, anche estetico oltre che etico, caro a Veltroni. Inutile quindi chiedere ai suoi documentari di essere, sul fronte dello stile, ciò che non vogliono e non possono essere.
Poi, certo, si può discutere del concetto di felicità che il manufatto, attraverso quegli “indizi”, prova a mettere a fuoco. Per Ingrid Bergman, l’attrice svedese che visse in Italia e amò Rossellini, “la felicità è buona salute e cattiva memoria”. Veltroni invece punta tutto sulla memoria, sulla densità precisa del ricordo, specie se doloroso, inciso sulla pelle viva, ancora capace di far piangere a distanza di decenni (la telecamera volentieri non si ritrae quando spunta la lacrima). Non per niente “Indizi di felicità” piazza in sottofinale, lasciandole più spazio che alle altre, la testimonianza, certo toccante, di Sami Modiano, l’ebreo che a 14 anni vide morire di fame e stenti, nell’inferno di Birkenau-Auschwitz, prima la sorellina e subito dopo il padre. Oggi, ormai novantenne, Modiano gira le scuole perché “i ragazzi devono sapere” che cosa fu quel genocidio infame, praticato con burocratica efficienza dai tedeschi: è quello “l’indizio di felicità” che Veltroni vuole estrarre dalle parole del sopravvissuto, divorato dai ricordi e tuttavia solo nella condivisione di essi capace di dare un senso pieno alla propria vita.
Magari trenta testimonianze o giù di lì rischiano di essere troppe, di appesantire il film, che infatti dura 103 minuti. Non tutte appaiono così necessarie, ma tutte corrispondono – per gusto, età, provenienza, storie – a un certo catalogo umano caro al Veltroni della maturità. Ecco la scampata alle Due Torri, l’ex criminale napoletano che s’è redento, il prete calciatore che tifa Sampdoria, la coppia di salumieri vegetariani alle prese con un figlio disabile, il veneziano barbuto che vive solitario negli orti della Giudecca, gli operai che hanno rilevato una fabbrica in crisi, lo scampato a un tumore che sembrava mortale, il rabbino che apre e chiude, eccetera.
La felicità, sentiamo teorizzare a un certo punto da un manager, è “abbandonare il senso comune e avviarsi in sentieri che nessuno ha percorso prima”. Non si può dire che Veltroni, cinematograficamente, faccia suo il consiglio. D’altro canto, sui titoli di coda di “Indizi di felicità”, risuona la canzone “La luna piena” di Samuel, il cui primo verso recita: “E poi si resta soli / quando tutti sono andati via / e gli unici rumori / sono ingranaggi della nostalgia”. Molto veltroniano. Di nuovo tutto torna.
Michele Anselmi