L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

La verità? Il remake americano di “Oldboy”, firmato dal prestigioso Spike Lee, dura 104 minuti e guardi spesso l’orologio. L’originale coreano di Park Chan-wook, girato nel 2003, premiato a Cannes l’anno dopo e uscito in Italia nel 2005, dura 118 minuti e non guardi mai l’orologio. Il giudizio è personale, quindi altamente opinabile, come sempre, non solo in fatto di cinema. Ma basta vedere i due film in rapida successione, magari prima il rifacimento hollywoodiano e poi la versione asiatica, per cogliere la differenza tra i due mondi estetici, pure l’impossibilità di trasferire negli States, sia pure in un non-luogo dell’anima scovato a New Orleans, la torva vicenda di “Oldboy”.

La vendetta tira sempre sul grande schermo, e il coreano Park Chan-wook è attratto come pochi dal tema, al punto da avervi costruito sopra una fortunata trilogia. Ma poi conta il resto: e bisogna dire che lo sceneggiatore americano Mark Protosevich, pur ricalcando in larga misura il copione originale desunto da un manga giapponese non senza introdurre decisive quanto incongrue variazioni, non rende un gran servizio a Spike Lee, il quale sembra indeciso sul tono da dare alla storia, restando in bilico tra omaggio cinefilo e reinvenzione anglofona.
Pare che negli Usa “Oldboy” sia stato attaccato per l’eccessiva brutalità di alcune scene. Così la replica del regista afroamericano: «Non gioco con la violenza. Se qualcuno ha abbandonato la sala vuol dire che ho colpito nel segno parlando di un’anima imprigionata. Ci vuole coraggio per andare a fondo del dramma del protagonista e della sua ricerca di verità. Perché oggi, cercando di vivere in una sorta di cartoon, molti si raccontano bugie mistificando la realtà».
A dirla tutta, invece, il regista esagera, magari per gusto della provocazione, mostrando in dettaglio atrocità e sofferenze, lembi di carne staccati dal collo e teste fracassate, fino quasi a far distogliere lo sguardo dallo schermo; mentre Park Chan-wook, nulla togliendo al torbido resoconto di una doppia vendetta, si ferma sempre un attimo prima, chissà se per auto-censura o per scelta estetica. Di sicuro il remake americano disperde, con una certa rozzezza, la complessità emotiva, l’ambiguità esistenziale, la bizzarria filosofica della versione asiatica, trapunta per contrasto da una musica d’archi. Restano invece, quasi pantografate nella “coreografia”, alcune feroci sequenze di rissa, i riferimenti a Edmond Dantès e alla tragedia greca “Edipo Re”, l’andamento imprevedibile della vicenda, e ci fermiamo qui per non rovinare la sorpresa della spettatore. Anche se l’“Oldboy” americano pasticcia parecchio, specie nel finale catartico e auto-punitivo, quasi un supplemento di pena stavolta scelto dal protagonista per espiare la Colpa rispetto all’epilogo aperto immaginato dal regista coreano.

D’altro canto, salvo eccezioni rare, i remake hollywoodiani semplificano e mirano al sodo, con il risultato di annullare certe sottigliezze, magari considerate bizzarrie d’autore. Come l’uso dell’io narrante, i riferimenti all’ipnosi, le visioni allucinate (quella formica gigante in metropolitana), frasi pure cruciali sul piano simbolico, del tipo: «Ricorda, sia un granello di sabbia sia una roccia nell’acqua affondano allo stesso modo».
Lo spaesato Dae-su incarnato nel 2003 da Choi Min-sik diventa il più scorticato Joe Doucett interpretato da Josh Brolin. Sposato infelicemente, padre di una bambina di tre anni, dedito all’alcol al punto di perdere facilmente la trebisonda, il fallito dirigente pubblicitario si ritrova imprigionato in una stanza. È l’8 ottobre 1993. Chi l’ha messo lì? E perché? Passeranno vent’anni (quindici nell’originale coreano): ravioli cinesi come unico tipo di cibo, un televisore acceso a scandire il passare del tempo, una telecamera a controllare che l’uomo non evada o si uccida. Finché il poveretto non viene liberato: su un prato in periferia, fuoriuscendo da un baule con un vestito nuovo, dei soldi e un cellulare moderno.
«Non chiedere perché sei stato imprigionato. Chiedi perché sei stato liberato» è lo strillo pubblicitario del film. In effetti “Oldboy” è la cronaca di una lambiccata vendetta ordita da un milionario coetaneo (occhio all’età) del protagonista, il quale a sua volta, armato di un micidiale martello col quale strazia, uccide e tortura, crede di vendicarsi facendola pagare cara a chi l’ha privato per quattro lustri della libertà.

Purtroppo “Oldboy” 2013 sembra diviso in due: la prima parte è più folleggiante e allucinata ancorché stiracchiata; la seconda sceglie, per evidenti ragioni commerciali, la strada classica della resa dei conti, con un eccesso di monito morale connesso alla vicenda edipico-incestuosa.
Josh Brolin, rasato o con parruccone, è attore curioso, eclettico, ma ha fatto di meglio. L’antagonista Sharlto Copley è truccato alla Vincent Price e parla come lui nei vecchi film horror di Roger Corman (sarà una citazione il fatto che il personaggio si chiami Pryce?). Elizabeth Olsen, dotata di notevole sex-appeal, è la vittima inconsapevole del piano architettato. Samuel L. Jackson, attore feticcio di quel Tarantino così odiato da Spike Lee, fa una comparsata eccentrica con capello da mohicano.

Michele Anselmi