Il gigantesco violino di Noè, opera scultorea a forma di imbarcazione realizzata da Livio De Marchi, che sorregge un’orchestra di musicisti sta in questi giorni diffondendo le note di musica classica tra le acque dei canali veneziani sancendo così la rinascita della città italiana più orientaleggiante e cosmopolita, dopo le drammatiche notizie, diramate giornalmente dal quel tragico marzo 2020, su morti, ricoveri e contagi. E anche l’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, come la precedente del resto, non poteva non ospitare pellicole sulla pandemia Covid-19.

L’anno scorso, per l’edizione 77, il direttore Artistico Barbera aveva ospitato un documentario sul Covid, una sorta di anticipazione della “carezza” vicariana al cinema mostrata nel film “Il giorno e la notte”, quest’anno, invece, in pre-apertura è stato presentato “La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid” di Andrea Segre. Ma all’interno della stessa kermesse cinematografica, dopo un anno di chiusura, hanno trovato spazio pellicole di spessore storico, che rappresentano il tentativo di preservare la memoria collettiva, come lo furono durante il secondo conflitto mondiale, secondo le analisi di Sebald nel saggio “Storia naturale della distruzione”, le immagini dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche o quelle del fungo atomico, emblema della barbarie umana compiuta su Hiroshima e Nagasaki.

Nelle molte sezioni del Festival di Venezia sono stati mostrati i diversi sguardi dei registi sul covid: dal dramma delle famiglie di Bergamo a quello romano, consumato tra le mura domestiche o, quasi senza distinzione, tra quelle di un carcere. Dalla sfilata schioccante delle bare di Bergamo nella docufiction “Le sette giornate di Bergamo”, proiezione speciale con l’esordio alla regia di Simona Ventura, a “Rebibbia Lockdown”, documentario diretto da Fabio Cavalli ideato da Paola Severino, con al centro la pandemia Covid-19, che ha stravolto e rivoluzionato lo stesso sguardo degli autori rendendoli sicuramente ancora più sensibili nel rappresentare questo dramma internazionale.

Così, nella famiglia neorealista mostrata da Davide Alfonsi e Denis Malagnino, nel film “I giorni bianchi”, distribuito dal cineasta Mauro John Capece, il dramma del lockdown è suggellato dal meccanico e ripetitivo urlo di munchiana memoria “Famme fuma’” di un disabile, interpretato da Daniele Malagnino, che vivendo, da infermiere, in prima linea la guerra contro il Covid-19 ha dichiarato: «Il primo lockdown ha esacerbato problematiche già presenti nel tessuto sociale, come nell’ambito personale, e molte persone abbandonate a loro stesse non hanno avuto la forza necessaria di fare coping ad un evento di tale portata. Ad oggi non ne siamo ancora fuori, ma, a differenza del primo lockdown, abbiamo uno strumento: il vaccino».

Alessandra Alfonsi