La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (6)

Si parte con “It’s Too Late” di Carole King e si finisce con “Me and Bobby McGee” di Janis Joplin. Le canzoni, tra il nostalgico e l’evocativo, non mancano di certo in “The Leisure Seeker” di Paolo Virzì, primo film italiano, benché girato in inglese negli Stati Uniti, sceso in gara alla 74ª Mostra di Venezia. Applausi calorosi pure alle due proiezioni per la stampa, con un sospetto di claque; commenti esaltanti su Facebook, del tipo: “Grandissimo Virzì, grandissimo” o “Che dominio del sentimento, che romanticismo avventuroso”; un passaparola festivaliero che evoca già il capolavoro, o giù di lì. Sommessamente non concordo.
Paolo Virzì è un brillante regista, tra i più bravi in Italia: sa scrivere bene, trae sempre il meglio dai suoi attori, possiede il senso della “commedia umana”, ha precisato con gli anni uno stile personale e popolare allo stesso tempo. Tuttavia “The Leisure Seeker”, tratto dal romanzo di Michael Zadoorian da noi edito col titolo “In viaggio contromano”, non è una riuscita. Un qualsiasi regista anglosassone di buon calibro avrebbe girato la storia “on the road” esattamente così, alternando situazioni umoristiche e affondi drammatici, panorami suggestivi e torsioni aspre.
Virzì non è al suo primo film americano. Però “My name is Tanino” fu realizzato in situazioni produttive improbe, umilianti, nel cuore del tracollo di Cecchi Gori; mentre oggi, reduce dal successo di “La pazza gioia”, il cineasta livornese gode giustamente di mezzi e opportunità (produce e distribuisce Raicinema-01). Infatti ha potuto ingaggiare due interpreti di levatura internazione, come il canadese Donald Sutherland e l’inglese Helen Mirren, per animare l’ultimo viaggio in camper di una coppia di anziani. Cambia un po’ il percorso rispetto alla pagina scritta, la sceneggiatura firmata con Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Stephen Amidon aggiunge qualche digressione al cine-racconto, ma resta intatto il cuore della storia.
“The Leisure Seeker” significa “il cercatore di svago”, dal nome dato a un camper della Winnebago molto in voga negli anni Settanta. È su un vecchio esemplare del 1975 che Ella e John salgono una mattina, senza dir nulla ai figli quarantenni, per un viaggio verso Sud dai contorni altamente simbolici. La destinazione è Key West, per visitare la famosa casa di Hemingway, e non sarà facile arrivare fin lì da Boston. Ella, ormai devastata dalle metastasi, ha deciso di sottrarsi a inutili cure mediche, ma non riesce a separarsi dalla sua parrucca; John, malato di Alzheimer, alterna momenti di lucidità a stati di rimbambimento totale, e sempre più spesso se la fa sotto.
Virzì definisce il suo film “una ballad buffa e triste, con qualcosa di irragionevole e pazzoide, ma vitale e felice”. Secondo i canoni del genere picaresco, sia pure in chiave crepuscolare, il film pedina i due anziani – lui prof colto e democratico, lei concreta e repubblicana – in quella fuga liberatoria verso la libertà dai condizionamenti dell’età. E intanto, a ogni fermata, le diapositive proiettate sul camper rievocano gioventù, viaggi e tappe di quella vita in comune. Amorosa, litigarella, non sempre lineare.
Naturalmente Sutherland & Mirren arpeggiano su tutta la tastiera della commozione, si fa un gran parlare di Hemingway, Joyce, Melville, echeggia anche Bob Dylan e una piccola manifestazione pro-Trump offre il pretesto per lo sfottò d’obbligo. Il film, fitto di battute sulla vecchiaia e di incontri bizzarri, sfodera un andamento lento ancorché a tratti toccante. Virzì replica un po’ lo schema di “La pazza gioia”. Ma si rimpiangono, suppergiù sulla stessa materia, film come “A proposito di Schimdt” e “Little Miss Sunshine”.
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La fatica dell’invecchiare torna anche nell’altro titolo in gara, il francese “La villa” di Robert Guédiguian. Regista di ispirazione comunista arrivato al successo di nicchia con “Marius et Jeannette”, del 1997, Guéduguian non si allontana mai granché dalla natia Marsiglia e usa sempre gli stessi interpreti: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet… Cinema “in famiglia”, a basso costo, spesso di ambientazione operaia, malinconico e combattivo insieme. Qui siamo a “la calanque de Méjean”, un ameno villaggio di pescatori non distante da Marsiglia, sovrastato da un gigantesco viadotto ferroviario. Un ottantenne, colpito da paralisi, sta morendo nella sua bella casa con affaccio sul mare, “la villa” appunto. Per i tre figli è arrivato il momento di rivedersi e discutere del dopo: la diva teatrale Angèle non s’è mai ripresa dalla morte in acqua della figlia; il professore marxista Joseph si presenta con una ricca fidanzata che ha metà dei suoi anni; il ristoratore Armand è l’unico rimasto a vivere nel borgo.
I film di Guédiguian non piacciono più ai cinefili, sono giudicati stanchi, ripetitivi, naïf. Eppure “La villa”, nonostante la chiacchiera un po’ esibita e le sottolineate citazioni brechtiane da “L’anima buona di Sezuan”, sfodera pregi superiori ai difetti. L’irrompere in quella caletta di tre bambini profughi, salvi per miracolo dall’annegamento, porrà i tre fratelli di fronte a una scelta morale che non è più figlia di una politica collettiva ma di una solidarietà individuale, di una personale ribellione alle leggi dello Stato. Un consiglio: non bisogna prendere alla lettera “La villa”, l’ideologia di Guédiguian si stempera nel rito familiare, nei paradossi dell’esistenza. Chissà se uscirà mai in Italia.
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Andrà invece benissimo in sala, dove uscirà il 26 ottobre con la Universal, “Victoria & Abdul” di Stephen Frears, accolto tra i Fuori concorso. Quattro anni dopo “Philomena” il bravo regista britannico torna a lavorare con la straordinaria Judi Dench. Il film ricostruisce l’inaspettata e un po’ scandalosa amicizia tra la regina Vittoria e il giovane commesso indiano Abdul Karim. Storia vera, ancorché romanzata da Lee Hall con qualche spiritosa licenza. Piccola curiosità: Judi Dench incarna per la seconda volta la regina Vittoria che regnò per 63 anni (morì nel 1901). La prima fu nel 1997, in “La mia regina” di John Madden, e anche lì la regina intratteneva, dopo la morte del marito Albert, un’amicizia considerata impropria con un ruvido stalliere scozzese, tal John Brown. Nel suo genere “Victoria & Abdul” è perfetto: fa spesso sorridere ed è recitato benissimo, ricostruisce i rituali di corte con britannica perfidia, non edulcora più di tanto il bizzarro rapporto che unì, dal 1887 in poi, il devoto contabile musulmano, interpretato da Alì Fazal, alla ruvida e annoiata “queen”.

Michele Anselmi