Breve excursus biopic | Quando la realtà supera di gran lunga la fantasia

Nel 1976 fu battezzata “Donna di Ferro” dal leader del partito sovietico Leonid Breznev, dopo l’elezione a leader del partito Conservatore Britannico: è Margaret Thatcher, la prima donna premier di una democrazia occidentale. Questa personalità politica eletta per ben tre volte consecutive ha colpito un’altrettanto solida personalità del panorama cinematografico hollywoodiano, il Premio Oscar Meryl Streep che accettò di interpretare il ruolo di una donna dalle idee politiche così lontane dalle sue (femministe e liberali) al fine della realizzazione di “Iron Lady”, di Phyllida Lloyd.

Forse perché nata e cresciuta in una famiglia piccolo-borghese in lotta con i colleghi maschi dal background economico più agiato, la figura di Margaret Thatcher ha scalato con tenacia ogni tipo di montagna sul suo cammino, conquistando la stima dei suoi rivali – all’epoca – e il cuore della critica oggi. L’idea alla base del film della Lloyd è racchiusa all’interno di un’energica dichiarazione messa in bocca alla donna di ferro: “Oggigiorno si parla troppo spesso dei sentimenti e non abbastanza dei princìpi”. Ecco la ragione dell’attuale riscoperta del genere biopic: al tentativo di voler riaffermare in qualche modo la nostra identità socio-culturale, si lega forse la necessità di appellarsi ad una figura vincente e alla forza del verbo, perché in qualche modo oggi l’immagine non basta più.

Di riproduzioni fotografiche siamo ormai esausti, in tutte le più diversificate declinazioni: subiamo quotidianamente un “bombardamento visivo”, eppure non è questo il primo caso di biopic in cui la parola si rivela più importante del colore. Si scava nel passato interiore del protagonista, nel pieno della sua sfera privata, al fine di svelare meccanismi comuni alle storie di tutti, fatti che di “privato” hanno ben poco. Lo aveva dimostrato con successo il regista Premio Oscar Ron Howard con la sua scelta di portare sul grande schermo i fatti mai raccontati che hanno dato vita ad uno dei momenti indimenticabili della Storia (con la maiuscola): “Il duello Frost/Nixon” (2008) prende il via proprio nel momento in cui il presidente Richard Nixon, dopo le dimissioni, accetta di sfruttare lo strumento di connessione tra “mondo privato” e “sfera pubblica”. La televisione come metafora è infatti incarnata sul piano fisico da David Frost, noto giornalista del jet set televisivo statunitense. Verità e bugie si mescolano perfettamente sullo schermo nella dura lotta tra i due: le interpretazioni di Michael Sheen e Frank Langella mirano, secondo quanto stabilito a tavolino a livello di scrittura pre-filmica, allo smascheramento delle logiche degli “apparati gerarchici”, sostenendo il concetto che lasciarsi intervistare non sia affatto la giusta strada per cancellare le macchie della propria carriera politica.

Come in questo film la figura del personaggio politico viene colta nell’arco temporale conclusivo alla sua carriera, anche Margaret Thatcher viene “catturata” dalla macchina da presa al momento dell’età senile all’interno del film della Lloyd che mantiene un rapporto di assoluta fedeltà rispetto al romanzo autobiografico di Carole Thacher: è questa una decisione che impone di ambientare la storia un tempo presente e scorrere a ritroso sul piano narrativo, meccanismo adottato dalla maggior parte dei film sul genere, fatta eccezione proprio per “Grazie, signora Thacher” (Mark Herman, 1996). L’elemento psicoanalitico insito nel rapporto figlio-genitore è un’altra delle caratteristiche sottese a questo genere, rintracciabile all’interno di "W.", un`altra pellicola recente firmata da Oliver Stone e incentrata sulla vita di un Presidente Usa. George W. è qui ritratto quasi in chiave “grottesca”, secondo una visione apocalittica degli eventi che vede il rampollo della nota famiglia del New England approdare alla carriera politica nonostante la mediocre esperienza scolastica e la scarsa formazione professionale: l’abuso di alcol e di hamburger, i fermi di polizia, una fidanzata abbandonata dopo la notizia di un bambino inatteso, tutto concorre a presentare il politico come un perfetto e pericoloso imbecille che ha rischiato di mettere seriamente in pericolo il mondo.

L’analisi dei politici degli Stati Uniti ha esteso i suoi confini anche al di là del territorio puramente cinematografico, declinandosi in forma di miniserie (otto puntate), con toni molto meno dissacranti rispetto al lavoro di Stone ma pur sempre tesa a raccontare segreti e contrasti interni ad una potente dinastia. Si tratta di “The Kennedys”, voluta e commissionata da History Channel, canale che nel gennaio 2011 annunciò che non l’avrebbe più trasmessa facendo leva sul fatto che l’interpretazione drammatica dei fatti non era adatta al marchio History: si pensò a tentativi di boicottaggio, poi falliti dal momento che la TV via cavo digitale Reelz Channel acquistò i diritti americani della miniserie e provvide a metterla in onda dall’aprile 2011 (a ruota seguirono Regno Unito e Canada, oggi ben 130 paesi hanno la possibilità tecnica di trasmetterla). Diffuso in Italia da La7 nell’agosto dello stesso anno, questo controverso prodotto audiovisivo creato e sceneggiato da Steve Kronish (repubblicano in politica) svela vicende scabrose legate al sesso, alla mafia e alle azioni spregiudicate di quei personaggi che fino a questo momento avevano rappresentato un vero e proprio mito nell’immaginario collettivo mondiale, forse anche a causa del fatto che gli omicidi dei suoi membri migliori avevano contribuito a idolatrare queste “vittime”, catalogando come “figure sante” delle persone che molto spesso avevano ceduto all’umana capacità di errare.

A proposito del concetto di vittima sacrificale, non si può non pensare al modo in cui la figura di Aldo Moro ha vissuto tra realtà e finzione nel limbo della produzione italiana: soffermandoci alle opere per il grande schermo, sia Bellocchio che Martinelli hanno tentato in modo personale di fare luce sulle vicende oscure degli anni di piombo, senza riuscire tuttavia ad illuminare le nostre menti sulla verità dei fatti. La ricerca della verità, in effetti, non è stata facile neanche per Sorrentino che nel 2008 ha affidato a Toni Servillo il ruolo chiave del suo “Il divo” (2008), così come ancora più trasversale era stato il tentativo di affrontare la realtà da parte di Nanni Moretti col suo “Il Caimano” (2006). 

Ilaria Abate