Inserito nella collana “I migliori film della nostra vita” edita da Gremese, “Vivere e morire a Los Angeles” di Fabio Zanello fa il punto sul capolavoro di William Friedkin. Ne abbiamo parlato con l’autore.
“Vivere e morire a Los Angeles”, nuova incursione di William Friedkin nel poliziesco metropolitano dopo “Il braccio violento della legge”, è uno dei suoi film più sorprendenti. Prima la livida New York, ora l’assolata Los Angeles: cosa avvicina e allo stesso modo allontana questi due film seminali del percorso del regista?
Fabio Zanello: “Vivere e morire a Los Angeles” è la quarta incursione nel poliziesco, visto che, fra questo film e “Il braccio violento della legge”, ci sono stati nel frattempo “Pollice da scasso” e il clamoroso “Cruising”. Credo che il mio focus sul film sia imperniato, come mi fai giustamente notare tu, sia sugli elementi di contiguità che di differenza con “Il braccio violento della legge”. Anzitutto bisogna partire dal presupposto che entrambi i film hanno rivoluzionato il poliziesco cinematografico, ma ciascuno secondo modalità differenti. L’estetica è diametralmente opposta: se ne “Il braccio violento della legge” c’è un uso preponderante della camera a mano soprattutto nella prima parte assai incline al documentarismo, con piani piuttosto lunghi, in “Vivere e morire a Los Angeles” la ricerca espressiva del regista è esplicitata da un montaggio rapido, ellittico e descrittivo. La metropoli californiana viene riconfigurata da Friedkin e dal direttore della fotografia Robby Müller, vero co-autore dell’opera, come una cartografia di architetture industriali, ferrovie, tangenziali e locations limitrofe ad esse, spesso illuminate da cromie tenui, diffuse e monocromatiche, che diventano transitorie per i personaggi, quasi a voler sottolineare metaforicamente un senso di alienazione metropolitana, che la struttura visuale riesce abilmente ad intercettare. Inoltre anche William L. Petersen, John Turturro e Willem Dafoe erano attori emergenti all’epoca, come era accaduto già per Gene Hackman e Roy Scheider per “Il braccio violento della legge”, a dimostrazione della lungimiranza di Friedkin verso i nuovi talenti attoriali.
Puoi spiegarci in che modo e attraverso quali elementi il film riesce a fare sintesi di quell’estetica degli anni Ottanta che anche il collega Michael Mann aveva fermato su immagine nella coeva serie di “Miami Vice”?
F.Z.: Un critico che mi ha formato molto come Franco La Polla ha parlato nel saggio “Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood” delle immagini cinematografiche prodotte negli Ottanta come riflettenti un’ epoca del disimpegno, dell’intrattenimento, della spettacolarizzazione acritica della realtà, denunciandone la stretta dipendenza dalla gnoseologia televisiva. Voglio cominciare da qui, in quanto nei confronti di quel decennio ci sono ancora molti pregiudizi. Eppure William Friedkin attraverso i codici del poliziesco realizza un trattato sui temi rilevanti di quella decade come il corpo (quello palestrato di Eric Masters/Willem Dafoe) e il trucco vistoso della sua compagna Bianca Torres/Debra Feuer mentre danza, il synth pop inglese (le composizioni dei Wang Chung), l’approccio cubista al montaggio cinematografico, dove la realtà viene frammentata sul piano prospettico e i punti di vista moltiplicati. Una struttura visiva insomma capace di modificare lo sguardo spettatoriale, che caratterizza molti prodotti dell’audiovisivo di quei tempi, ma, da opera avanguardistica quale è, ha anticipato anche l’iper-velocizzazione del cinema di oggi. Con la differenza che Friedkin, a differenza di un Michael Bay qualunque, compie qui come in altri suoi lavori una rimodulazione dell’immagine, per delineare delle opposizioni dialettiche. Ne è un esempio concreto l’alternanza nel film fra scene statiche e altre più dinamiche, una pratica perseguita dal regista anche ne “Il braccio violento della legge”. Va precisato però che, rispetto ad altri registi del periodo come Adrian Lyne o Tony Scott, Friedkin si piega parzialmente all’estetica del videoclip, in quanto la fotografia non è patinata e laccata, ma iperrealista. In fondo, dietro l’estetica unisex del decennio del look (contemporaneamente «sguardo» e «modo d’apparire»), dietro le logiche del pop e della nuova estetica postmoderna, grazie anche all’apporto del succitato Müller, il regista imprime subito una cifra autoriale. Da critico posso affermare che Michael Mann è oggi il suo miglior allievo, per come ne ha metabolizzato la lezione in termini linguistici e narrativi, replicando in una serie come “Miami Vice” certe dinamiche non solamente ideologiche, ma anche industriali, antropologiche, sociali e storico-politiche intrinseche alla poetica di Friedkin.
Per Friedkin la storia raccontata nel film è “la rappresentazione di un mondo contraffatto”. Cosa significa questa affermazione?
F.Z.: C’è un paragrafo sul libro dove ho approfondito la chiave di lettura del mondo contraffatto, formulata proprio dall’autore. Si dice che gli artisti sono generalmente bugiardi, non dimentichiamoci che Masters, il villain della diegesi, è anche pittore oltreché un falsario e i suoi dipinti occultano la sua attività illecita. L’identità artistica è dunque posticcia. In una scena lui brucia i suoi quadri per ricordarci che prima di tutto è un criminale. La contraffazione contamina tutto e tutti. Anche Bianca Torres vive una sessualità contraffatta, perché, se da un lato ama il falsario, dall’altro, ha una relazione saffica con la collega Serena. Con questo lungometraggio reimpariamo a osservare le cose e le persone oltre la loro apparenza, a vedere quello che le immagini cancellano, a immaginare quello che ottundono.
In che modo hai lavorato alla scrittura del saggio, considerando che appartiene ad una pregiata collana a struttura fissa?
F.Z.: Dapprima mi sono studiato alcuni volumi di questa collana dell’editore Gremese, che ringrazio molto per la fiducia e per la traduzione in francese, dedicata ai classici del cinema, per capire come impostare la mia analisi testuale. Poi mi sono revisionato “Cruising”, “Il salario della paura” e “Vivere e morire a Los Angeles”, perché sapevo fin dall’inizio che l’oggetto della mia trattazione sarebbe stato uno di questi film. Mi ha attanagliato l’urgenza di affrontare criticamente ancora una volta il cinema di Friedkin. Un regista che non si tira mai indietro davanti ad una storia dalla morale dubbia o intorbidita, giocando con acume sulla percezione spettatoriale del suo ruolo di artista mai compromissorio. Alla fine, ho opzionato quest’opera, perché mi è sembrata la più complessa, sperimentale e stratificata. Quella più aperta alle contaminazioni fra linguaggi. In questo film immensurabile si dispiega tutta l’intelligenza di un cineasta, che non dirige film per noi, a volte li realizza contro di noi o il sistema, e di questo dobbiamo essergliene grati in eterno.