L’angolo di Michele Anselmi

La forza di “Ariaferma” sta nella tensione costante che suggerisce, senza furbizie, con il massimo rigore e quel minimo di prevedibilità tipico dei film di ambiente carcerario. Non si capisce bene perché sistemato tra i “fuori concorso” a Venezia 2021, in gara avrebbe figurato francamente meglio di almeno due dei cinque titoli inseriti, il nuovo film di Leonardo Di Costanzo arriva nelle sale giovedì 14 ottobre, con Vision Distribution, producono Tempesta di Carlo Cresto-Dina e Rai Cinema; e c’è da augurarsi che il pubblico, al di là della capienza ritrovata, raccolga la proposta. Perché si esce da “Ariaferma” con la sensazione di aver visto un film che si eleva di gran lunga sulla qualità media dell’odierno cinema italiano: per densità espressiva, compattezza, recitazione, valori estetici, senso della misura.
Chi ha letto alcune cronache veneziane ricorderà di che cosa parla “Ariaferma”. Siamo in Sardegna, dove un vecchio penitenziario, l’immaginario Mortara, sta per essere chiuso. Le guardie festeggiano attorno a un falò, sotto rocce che sembrano scolpire visi e figure; ma il sorriso dura poco su quei volti: una grana organizzativa blocca l’esodo completo, sicché quindici agenti della Polizia carceraria dovranno restare lì ancora per qualche giorno a custodire dodici detenuti.
In questo tempo sospeso, tra celle abbandonate e generatori difettosi, tocca all’ispettore capo Gaetano Gargiulo, ovvero Toni Servillo, il compito di guidare la baracca. Si respira uno strano venticello di rivolta, a causa del cibo precotto portato da fuori e della promiscuità indotta dalla situazione eccezionale; e anche le guardie, annusando la tensione serpeggiante, induriscono i controlli. Fino a quando uno dei prigionieri, il carismatico e rispettato Carmine Lagioia, forse un ex boss della camorra, cioè Silvio Orlando, non si propone come cuoco: basterà rimettere in funzione la cucina, facendo arrivare gli ingredienti da fuori. Già, ma c’è un problema: chi lo controlla? Sarà lo stesso Gargiulo, facendo uno strappo alla regola, a tenerlo sott’occhio mentre prepara primi e secondi. E qui mi fermo, per non rovinare le sorprese.
Avrete capito che “Ariaferma” è costruito come un laconico incontro-scontro tra due uomini “Alfa”, o sedicenti tali, su parti opposte della barricata, anche se la vita in carcere spesso annulla le differenze o, perlomeno, avvicina le esistenze. “È tosto sta’ in galera, eh?” si lascia sfuggire Lagioia. “Tu stai in galera. Io no” replica Gargiulo.
Teso come una corda di violino, scandito dalla colonna sonora percussiva di Pasquale Scialò e fotografato su tonalità livide da Luca Bigazzi, “Ariaferma” racconta pochi giorni di quella provvisoria convivenza ravvicinata: da un lato, appunto, i pochi poliziotti, nervosi e sospettosi, pronti al peggio; dall’altro, la dozzina di detenuti, tra i quali un vecchio pedofilo fuori di testa, disprezzato dai compagni, e un giovanotto fragile, perso, sulla cui testa pende un pesante fardello.
Non è la prima volta che il cinema italiano s’immerge nella vita carceraria in una chiave simile, ci provò nel lontano 1997 Angelo Pasquini con “Santo Stefano”, ma Di Costanzo, classe 1958, ischitano, al suo terzo lungometraggio dopo “L’intervallo” e “L’intrusa”, mostra di avere idee molto più chiare, anche uno sguardo originale, potente e sottile allo stesso tempo, sulle dinamiche carcerarie. Pure per merito del copione scritto dal regista insieme a Bruno Oliviero e Valia Santella.
Naturalmente bisogna mettere da parte, per un attimo, il ricordo dell’atroce pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, anche perché la condizione umana evocata da Di Costanzo tende, oltre il realismo della messa in scena, alla metafora alta, alla riflessione etica su quell’universo chiuso, per forza di cose “concentrazionario”.
Magari mi sbaglio, ma vedendo “Ariaferma” m’è tornato in mente il cinema di Sidney Lumet, soprattutto “La collina del disonore”: per lo studio psicologico dei personaggi maschili, l’assenza di scorciatoie “buoniste”, il controllo dell’orchestrazione (dialoghi, rumori, ambienti). Servillo e Orlando, qui al loro meglio, lavorano per sottrazione, senza gigioneggiare, facendo affiorare inattese affinità emotive che i rispettivi ruoli dovrebbero negare; ma anche il resto del cast, nel quale si distinguono Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco e Pietro Giuliano, solo per dirne alcuni, s’intona al clima generale, con lucida adesione.

Michele Anselmi