“La vita non è altro che un sogno”, afferma Dario Argento, parafrasando Edgar Allan Poe, all’interno di una delle prime sequenze di “Vortex”, l’ultimo lungometraggio del regista franco-argentino Gaspar Noé. Un sogno che, trasformandosi progressivamente in incubo, si fa presagio di morte. Nella sua prima prova attoriale il maestro del brivido interpreta un anziano scrittore che assiste all’ inesorabile declino della salute di sua moglie, impersonificata da Françoise Lebrun. Il figlio della coppia (Alex Lutz), tossicodipendente, cerca di mediare senza successo tra le posizioni dei due anziani, logorato dal rapido decadimento della condizione medica della madre, un’ex psichiatra che si prescrive da sola gli psicofarmaci.
Nonostante la trama della pellicola sia ridotta all’osso e il finale tragico preannunciato sin dalle prime sequenze, lo spettatore è immerso in un intimo clima familiare che si tinge di disperazione, ricordando a più riprese il commovente “Amour” (2012) di Micheal Haneke. Gaspar Noé affronta nuovamente il tema della morte, vero e proprio topos ricorrente nella sua filmografia, spogliandosi del massimalismo registico che caratterizza pellicole come “Enter The Void” (2009) per prediligere, ora, lunghi piani sequenza ripresi con telecamera a mano che seguono le stanche routine giornaliere dei due protagonisti. La soluzione stilistica che più caratterizza la pellicola, però, è uno split screen che incornicia costantemente i due protagonisti della narrazione, permettendo di far interagire dialetticamente tra loro i due riquadri: i due anziani, così, sono allo stesso tempo legati indissolubilmente tra di loro, ma anche soli ed isolati di fronte al medesimo triste destino. Lui, malato di cuore, lei logorata da una malattia mentale. Nonostante, forse, l’eccessiva durata della pellicola, il film riesce comunque a convincere ed emozionare, risultando essere una delle opere più solide del regista franco-argentino. Spogliandosi dell’eccessiva stilizzazione visiva che caratterizza pellicole come “Love” (2015) o “Climax” (2018), Noé riesce a conciliare la forma con la sostanza della narrazione, firmando, anche grazie alla potente performance attoriale, uno dei suoi film più intimi, commoventi ed empatici. Anche l’estremo (e a tratti stucchevole) citazionismo rintracciabile in altre pellicole del suo corpus registico viene qui ridimensionato e giustificato diegeticamente dalla passione che il personaggio di Argento nutre per il cinema. Togliendo gli eccessi dalla sua messa in scena, rinunciando, ad esempio, a sequenze epilettiche, Noé riesce a valorizzare, come sul finale del film, quei momenti in cui emergono le sue trovate registiche più originali.
In conclusione, il settimo lungometraggio di Gaspar Noé è una delle sue opere più intime e mature, oltre che un vero e proprio concentrato della sua poetica. Un film fortemente autobiografico, ispirato dalla demenza senile che ha colpito sua madre e dall’emorragia celebrale che l’ha quasi ucciso, che non ha bisogno di ricorrere a sequenze psichedeliche per raccontare la caduta libera della salute di due persone ormai di fronte alla porta dello spavento supremo. “La vita non è altro che un sogno” afferma Argento. “Anche la morte”, potrebbe replicare il regista.

Gioele Barsotti