Dall’esordio omonimo del 1968 fino a “Colorado”, gli oltre cinquanta album di Neil Young sono analizzati con puntiglio e competenza in “Neil Young. Walk Like a Giant. Testi commentati”, il volume che Marco Denti pubblica per Arcana. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il tuo libro inevitabilmente costruisce, attraverso l’analisi cronologica dei lavori del cantautore canadese, il ritratto di un artista in grado di “mostrare”, di “far vedere” attraverso la musica. Possiamo parlare di questo concetto?
Marco Denti: Assolutamente sì. La scrittura di Neil Young si evolve attraverso le immagini che tra l’altro non sempre sono coerenti o immediate. Per esempio, nelle sue canzoni c’è una particolare zoologia che attraverso le figure animali sembra interpretare i comportamenti umani. C’è tutto un catalogo di auto, treni, navi a testimoniare, al di là della specificità delle descrizioni, una vocazione al movimento, che è una costante nella sua vita e nella sua scrittura, e qui è sufficiente pensare a “Special Deluxe” che è il libro dedicato alla sua collezione di automobili, che in realtà svela moltissimo della sua biografia e della sua personalità. Uno degli aspetti più curiosi è che Neil Young tende a dare un nome a qualsiasi cosa (le auto, le chitarre, i ranch) come se stesse definendo un singolare universo, ma al di là delle peculiarità del linguaggio sorprende sempre cambiando il punto di vista. Per esempio, c’è la prospettiva unica di “Powderfinger”, che in realtà è una drammatica short story, però dal punto di vista di un fantasma. E così ha un ruolo fondamentale, nella costruzione delle canzoni, l’aspetto onirico a cui Neil Young attinge, forse più che a ogni altra fonte. In effetti, giusto per spiegarci, a differenza del collega e amico (una stima reciproca dichiarata a più riprese negli anni) Bob Dylan che ha una scrittura profondamente letteraria, immersa nel linguaggio, nel flusso delle parole, nella poesia, quella di Neil Young è più evocativa, volendo per certi versi persino naïf, o, meglio, istintiva, ma ha qualcosa di magnetico, di ipnotico. Il motivo, sì, credo proprio sia in quello che dici tu: Neil Young più che raccontare, mostra all’ascoltatore un immaginario fluttuante capace di comprendere mondi diversi e distanti tra loro.
Il romanticismo perdente di alcuni pezzi, la verve delle cavalcate elettriche, il male di vivere e l’alienazione che animano interi album, le ballate dolenti, ancora la lente del passato per guardare al presente, l’amore per il ritratto bucolico e un’attitudine punk e stradaiola che nessun cantautore della sua generazione può vantare… Che sia la ricchezza delle frecce del suo arco a rendere Neil Young il “padrino” di chiunque voglia esprimere la propria anima con la musica?
M.D.: Credo che l’enorme varietà di forme attraversate dalla sua musica dipenda in realtà dalla sua vocazione alla libertà assoluta. Quindi diventa difficile dire quale è la causa e quale l’effetto. Neil Young ha fatto della sistematica distruzione dei traguardi raggiunti un’attitudine che ha mantenuto per tutta la vita. Avrebbe potuto rifare “Harvest” all’infinito, e invece ha spiazzato subito tutti. Ed è sempre stato allergico alle imposizioni, agli standard, spesso anche alla logica. Lo storico periodo alla Geffen Records dove pubblicò uno dopo l’altro album improbabili (alcuni anche per sua stessa ammissione), oggi, a distanza di trent’anni, appare come un atto di ribellione, mentre allora sembrava un bizzarro crepuscolo. Ricordiamo che la Geffen Records fece causa a Neil Young perché, in sintesi, i suoi dischi non erano abbastanza Neil Young, un paradosso che la dice lunga sul personaggio, che resta inafferrabile (per inciso, la causa finì nel nulla, ovviamente: Neil Young concesse un’antologia “Lucky Thirteen” e il contratto venne concluso lì). Le mutazioni stilistiche, i cambi di registro (se non proprio d’umore) dipendono proprio da questa vocazione a bruciarsi i ponti alle spalle. Credo che, più di tutto, sia proprio questo approccio ribelle e incontrollabile ad avergli aperto le porte a più generazioni.
Molto prima che gli obiettivi dell’Agenda 2030 fossero messi nero su bianco e ancora prima che la parola “sostenibilità” diventasse di uso comune, la sensibilità ecologica e ambientale era già uno dei temi ricorrenti in Young. In che modo, adesso, le sue canzoni sull’argomento risultano profetiche?
M.D.: L’attenzione all’ambiente di Neil Young parte da lontano, di sicuro non dalla salvaguardia, ma dalla celebrazione della bellezza della natura, dalla condivisione dei suoi frutti. Ricordiamo che il nonno era un agricoltore e che Neil Young, insieme a John Mellencamp e a Willie Nelson, è uno dei fondatori di Farm Aid, il benefit a favore degli agricoltori americani. Per cui, la sua sensibilità verso la terra e la natura dipende da un senso di appartenenza che è sempre stato esplicito ed è uno degli aspetti della sua scrittura che è rimasto coerente nel corso degli anni, fino ai tempi più recenti, penso per esempio, a “Paradox” o a “Greendale”, ma soprattutto a “The Monsanto Years”. Nelle sue canzoni si ritrovano considerazioni che coincidono con le valutazioni di scrittori come Wendell Berry, Aldo Leopold, Rachel Carson o Edward Abbey, ma credo venga spontaneo e naturale accostarlo anche a Thoreau. Del resto una spiccata sensibilità ambientale non può che svilupparsi in simbiosi con un’altrettanto evidente vocazione pacifista e non violenta, che è un’altra delle più importanti costanti nella vita e nella carriera di Neil Young.
Parliamo del lavoro di traduzione e di come hai proceduto alla costruzione di un lessico younghiano in lingua italiana. Al di là del commento, certamente sempre frutto di una conoscenza approfondita dell’intera opera del cantautore, come hai lavorato alla traduzione di testi che hanno proprio nella loro disarmante chiarezza espositiva la capacità di aprire ad un altrove?
M.D.: Qui devo confessare che sono un cattivo traduttore perché sono capace di perdere una giornata nel tentativo di cogliere l’esatto senso di una parola e di cercare di trasporla avvicinandomi quanto più possibile alla voce dell’autore. Per cui, per quelli che sono i tempi e i metodi di gestazione di un libro, il lavoro di traduzione mi è precluso. Per i testi di Neil Young mi sono affidato all’enorme lavoro che hanno fatto (e continuano a fare) Cristina Falduto e Matt Briar su www.neilyoungtradotto.com e a quello svolto in precedenza da Davide Sapienza e Marco Grompi. Così ho avuto il tempo di indagare a fondo nel linguaggio di Neil Young, concedendomi di comprendere anche alcuni dettagli che ai bravissimi traduttori, per i motivi di cui dicevamo prima, probabilmente erano sfuggiti. Non molti, in realtà, ma uno vale la pena raccontarlo. In “Southern Pacific”, un brano di “Re-Ac-Tor”, che racconta di un ferroviere ormai in pensione, il protagonista della canzone dice “I rode the highball”. Le traduzioni che ho visto non mi convincevano. Qualcuno ipotizzava che l’highball in questione fosse il famoso drink, ma non aveva molto senso. Per cui cercando di trovare un significato più attinente, ho seguito l’ossessione ferroviaria di Neil Young e ho scoperto che l’highball era un segnale ferroviario in uso prima dei segnali a bandiera. Era una palla bianca montata su un palo lungo i binari e quando era in cima vale come segnale di via libera alla massima potenza. E qui il senso della frase si è fatto compiuto, per quanto il termine resti intraducibile. Poi è verissimo quello che dici, perché comunque nel lavoro di rilettura ho avuto spesso la sensazione di trovarmi in un campo aperto e in mondi nuovi.