L’angolo di Michele Anselmi
Luca Guadagnino ha scoperto la parola “entropia”. La pronuncia cinque o sei volte in una breve intervista televisiva che culmina nella frase: “Fare cinema per me è una lotta corpo a corpo con l’entropia e con il desiderio di non fare cinema”. Sarebbe facile ironizzare e non lo farò; ma immagino che, tra i diversi significati di entropia, al regista di “Chiamami col tuo nome” piaccia quello che allude alla “graduale degenerazione di un sistema verso il massimo disordine” (Treccani).
Ciò detto, ho visto le prime due puntate di “We Are Who We Are”, la serie televisiva in otto episodi, di circa un’ora l’una, che Guadagnino ha scritto, diretto e coprodotto insieme a HBO, Lorenzo Mieli e Mario Gianani. La trovate da ieri su Sky Atlantic, e naturalmente fiocca già un certo delirio cinefilo attorno alla nuova prova del regista siciliano, concessa in anteprima alla Quinzaine di Cannes, anche se poi il festival non s’è fatto (ma il marchio resta sui titoli di testa).
Dopo il remake di “Suspiria”, saltato il film con Jennifer Lawrence, Guadagnino torna in Italia, sia pure rinchiudendosi in un pezzo di America: siamo infatti in una base militare Nato, la “Pialati”, a un passo da Chioggia. Nel 2016, poco prima della vittoria di Trump, il quattordicenne newyorkese Fraser approda controvoglia da quelle parti insieme alla madre Sarah, nominata nuova comandante. Sarah è lesbica, vive insieme alla moglie Maggie, anch’essa in divisa, il che ha creato, forse, qualche confusione a Fraser. Il ragazzo indossa capelli decolorati, unghie con lo smalto, pantaloni maculati a metà sedere, t-shirt di marca e giacche con la linguaccia dei Rolling Stones; naturalmente legge “Ragazzi selvaggi” di William S. Burroughs, va male a scuola, alza la musica negli auricolari quando sente l’inno italiano, sbevazza appena può e guarda con una certa curiosità gli attributi dei soldati nudi sotto la doccia.
La prima puntata è tutta costruita su di lui: indocile e insofferente, s’intende arrogantello, oggetto di qualche ironia nelle base e delle attenzioni di una ragazza cicciottella che pare molto disinibita.
La seconda invece presenta la seconda protagonista della storia: cioè la coetanea Caitlin, altra “figlia” della base militare, una ragazza dai tratti esotici che si diverte a fare il maschiaccio, sotto il cappellino verde da camionista ve la camicia a scacchi, mentre invece deve fare i conti con le prime mestruazioni e l’assalto di uno spasimante che vorrebbe spulzellarla.
Tra i quattro sceneggiatori c’è lo scrittore Paolo Giordano, e immagino che si debbano a lui i riferimenti a Walt Withman, appunto a Burroughs, forse al filosofo Ernst Jünger, laddove viene evocato, pure sui titoli di testa, il motto latino “Qui e ora”, caro alla gioventù ribelle. L’idea, se ho capito, è di indagare nell’eta inquieta di questi adolescenti americani compressi in una rigida dimensione militare, tra mimetiche e baschi rossi, e insieme alle prese con la scoperta della propria identità sessuale, anche di quella strana Italia che s’agita là fuori. Insomma, si torna un po’ a “Chiamami col tuo nome”.
Cinematograficamente, sia pure alla sua maniera, cioè omaggiando “La Luna” del prediletto Bertolucci nell’incipit, Guadagnino sembra muoversi tra l’americano Larry Clark e il franco-tunisino Abdellatif Kechiche, ma in versione soft, anche se la quarta puntata, ho letto, promette un’orgia assai realistica.
Jack Dylan Grazer e Jordan Kristin Seanón incarnano i due adolescenti, Chloë Sevigny è la madre comandante, Alice Braga sua moglie. Il doppiaggio non aiuta, meglio la versione originale; ma bisogna essere proprio molto interessati alla faccenda per non smettere dopo le prime due puntate.
Michele Anselmi