Incontriamo Roberto Lasagna e Rudy Salvagnini, curatori di “Wes Craven – Dal profondo della notte” (Weird Book, 2022) su un grande rivoluzionario del cinema americano che ha saputo innovare, come pochi altri, il genere horror. Con saggi di Lasagna e Salvagnini, Michele Caricola, Antonio Pettierre, Fabio Zanello, Francesco Saverio Marzaduri, Riccardo Caccia, Fabio Cassano, Matteo Fantozzi, Aurora Auteri, Elisa Torsiello e Chiara Pani.
Quando si parla di Wes Craven, non di rado, si tende a relegarlo in una posizione di “secondo piano” (insieme a Tobe Hooper) rispetto a George A. Romero e John Carpenter. Quanto le condizioni produttive in cui hanno lavorato queste “due coppie di registi” influiscono sulla percezione dello spettatore e sulla loro ricezione critica?
Rudy Salvagnini: Tutti e quattro gli autori citati hanno lasciato un segno evidente e personale nel cinema, soprattutto nell’horror, ma taluni di loro non solo nell’horror. I loro percorsi però sono stati assai diversi e condizionati non solo dalle loro rispettive capacità e personalità, ma anche dalle scelte che hanno compiuto, soprattutto a livello produttivo. Romero, per esempio, ha preferito quasi sempre lavorare al di fuori delle grandi case produttrici per mantenere un certa indipendenza e quando non l’ha fatto ha passato il suo periodo peggiore a livello non solo creativo, finendo spesso nel calderone di quello che viene chiamato “development hell” e nella conseguente forzata inattività. Craven, invece, ha seguito un percorso in parte diverso. Leggendo le molte interviste che ha rilasciato nel corso degli anni, la cosa che mi sembra più evidente è il suo desiderio di essere accettato dal cinema mainstream, dalle produzioni di serie A, per poter lavorare in condizioni migliori e con budget adeguati, al di fuori del ghetto dell’horror indipendente. Anche Romero ha spesso cercato di diversificarsi e di uscire dall’horror, basti pensare ai film che ha fatto subito dopo i suoi due più grandi successi (“La notte dei morti viventi” e “Zombi”), ma non ha ricercato tanto cambiamenti di categoria produttiva, quanto di tematica, di argomento, per potersi esprimere raccontando altri tipi di storie che gli stavano a cuore (“Knightriders” è molto significativo a questo proposito). In questo senso penso che sia normale la percezione che Romero sia, per dirla sbrigativamente, più “autore” di Craven. Craven era forse più “regista”, più desideroso di poter realizzare dei film compiutamente riusciti anche a livello spettacolare e di intrattenimento, con effetti speciali e valori di produzione di livello adeguato. La soddisfazione manifestata per la realizzazione di un film come “Red Eye” è in questo senso molto indicativa. Allo stesso tempo, però, Craven aveva idee originali a volte dirompenti e una natura autoriale che lo portava sempre a tornare nel cuore dell’horror.
“Wes Craven – Dal profondo della notte”, che vanta l’usuale veste deluxe cui ci ha abituato Weird Book, analizza l’opera del regista in senso cronologico grazie a saggi dedicati a ciascun titolo cui si aggiungono due approfondimenti sul corpus televisivo e sulla saga di “Scream”. La scelta di una struttura a compartimenti stagni appare oltremodo adatta all’analisi di un autore come Craven, che sembra più un regista di singole opere, a ben vedere, difficili da analizzare insieme in un discorso complessivo o per nodi tematici… Cosa ne pensate?
R. S.: La struttura del libro è tale da presentare più punti di vista sul medesimo autore, anche se non sulle sue singole opere, tranne casi particolari. È quindi una struttura interessante che sacrifica forse un po’ sull’unitarietà della visione, ma guadagna nella poliedricità e diversità dello sguardo. È vero, penso, che una simile struttura si adatti bene a un regista particolare come Craven, che ha fatto molti film spesso assai diversi tra loro, pur nell’evidenziazione di alcuni filoni tematici specifici. La
carriera di Craven non è stata lineare ed è stata spesso caratterizzata da scelte particolari e apparentemente contraddittorie, a volte dettate da motivi alimentari, altre volte dal desiderio di cambiare o di seguire una rotta particolare a scopi di miglioramento personale. Perciò, è una carriera caratterizzata spesso dalla discontinuità, fatta di opere di valore molto diverso, di film sbagliati (o che possono sembrare tali) e di film così azzeccati da sembrare miracolosi. Come ho detto prima, la sensazione è che Craven volesse diventare un regista mainstream in grado di girare qualsiasi genere di film, ma che in qualche modo la sua stessa natura glielo abbia (fortunatamente?)
almeno in parte impedito.
Più intellettuale di altri colleghi, anche prima della “scoperta” del coefficiente metaforico del genere horror, Craven porta al cinema l’incubo dell’America della porta accanto fin dalle prime opere. Quali sono i momenti miliari del suo percorso e come sedimentano i suoi primi esperimenti nei film e nelle visioni delle generazioni successive di cineasti?
Roberto Lasagna: Craven è riuscito a innovare l’horror, almeno in tre decadi successive: nei Settanta ha raccontato l’incubo della porta accanto ma anche quello delle pulsioni sopite, con titoli quali “L’ultima casa a sinistra” e “Le colline hanno gli occhi”, e lo ha fatto dando vigore a un cinema sinistro e disturbante, figlio del rapporto malato tra l’individuo e la società; negli Ottanta egli ha esplorato, con “Nightmare”, l’horror in chiave onirica, portando in luce una delle grandi maschere del brivido, che sarà protagonista di sequel e del bisogno di portare in scena i fantasmi della coscienza in un cinema vistosamente postmoderno; nei Novanta, infine, Craven ha realizzato con “Scream”, uno dei film più autoriflessivi che il genere horror abbia saputo dare alla luce, film-saggio e summa teorica imprescindibile per i nuovi registi e gli spettatori. Nel mezzo, tra film più o meno ispirati, alcune altre opere significative come “Il serpente e l’arcobaleno”, “La casa nera” e “Sotto shock”, con cui Craven ha continuato ad esplorare volti e geografie dell’incubo cercando di portarsi sempre verso nuove strade.
Qual è l’unicità della visione di Craven? E credete sia riscontrabile anche nella sua produzione televisiva o in titoli anomali quali “La musica nel cuore”, “La cugina del prete” oppure in “Red Eye”?
R. L.: C’è sempre un’inquietudine sinistra, un’isteria latente (e non solo), nelle visioni di Craven: è un cinema in cui la violenza è effetto della mentalità ottusa delle società ed è pronta a manifestarsi nei modi più inconfessabili: come vendetta da parte di una famiglia borghese che, pur ferita, si rivela poi agguerrita e pronta alle peggiori deturpazioni (come nei film degli esordi del regista); come irruzione degli incubi in una quotidianità impallidita (“Nightmare” e non solo); come manifestazione di un gioco sadico autocompiaciuto ed espressione del vuoto di senso di una generazione (“Scream” e dintorni). Tracce di questa visione si ritrovano in quasi tutto il suo lavoro, nonostante alcuni titoli siano definibili più d’occasione quando non dei veri e propri tentativi di mettersi alla prova come regista “non solo horror”.