L’angolo di Michele Anselmi
C’era bisogno di rifare “West Side Story”? Probabilmente no. Ha fatto bene Steven Spielberg a rifare “West Side Story”? Probabilmente sì. Non so se sia più tempo di musical all’antica, ma capisco perché il regista più famoso al mondo, oggi 75enne, abbia voluto affrontare la sfida estetica e commerciale, con tanto di dedica finale: “A mio padre”. L’originale “West Side Story” uscì nel 1961, giusto sessant’anni fa, vinse dieci Oscar e lasciò un’impronta indelebile nella storia del cinema musicale e ballato. Diretto da Robert Wise e dal coreografo Jerome Robbins, su musiche di Leonard Bernstein e testi di Stephen Sondheim, resta un classico che più classico non si può.
Il vecchio adagio consiglia di non rovinare i film perfetti, ma Spielberg, mettendo da parte progetti forse più redditizi, ha pensato che fosse venuto il momento giusto di recuperare quella storia, dichiaratamente ispirata a “Romeo e Giulietta”, per riportarla proprio dove prima il musical teatrale e poi il film hollywoodiano avevano voluto ambientarla: a New York negli anni Cinquanta, nei quartieri popolari bersagliati dalla cosiddetta “gentrificazione”, tra rovine e ruspe, dove sarebbe nato il Lincoln Center.
Ci si chiede perché Spielberg non abbia voluto aggiornare il contesto, reinventando personaggi e dinamiche, magari aggiungendo qualche allusione politica. Immagino che la ragione sia semplice: “West Side Story” è un’allegoria romantico-sociale, narra di uno “ieri” che è anche “oggi”, nonostante la brillantina, le auto della polizia, le insegne, gli abiti, i balli, le contrapposizioni e gli struggimenti da anni Cinquanta.
Ciò detto, ho voluto vedere il “West Side Story” di Spielberg, nelle sale dal 23 dicembre con 20th Century Studios, senza fare alcun ripasso, evitando confronti con l’originale. Sperando di farmi stupire, quasi fossi uno spettatore che assiste per la prima volta alla tragica vicenda di Maria e Tony. È successo: dopo pochi dei 156 minuti, che è quanto dura il remake (5 in più del vecchio), mi sono sentito risucchiato nel ritmo scandito dallo schioccare delle dita, quasi un metronomo.
La vicenda riassunta alla svelta. Nel West Side newyorkese, tra macerie di case popolari distrutte dalle ruspe per fare posto ai nuovo ricchi, le comunità dei presunti nativi bianchi e dei portoricani immigrati si guardano in cagnesco. Specie i giovani, per lo più disoccupati e poveri, raccolti nelle due bande rivali, i “Jets” e gli “Sharks”, pronti a sfidarsi per il controllo del territorio. In questo clima fortemente teso e violento, sboccia l’amore impossibile tra Maria, la bella sorella del pugile Bernardo, capo dei portoricani, e Tony, che fu leader dei “Jets” e ora, dopo un anno in galera, vuole rifarsi una vita onestamente (al suo posto c’è il rabbioso Riff). Il resto potete immaginarlo, anche perché spunta quasi subito fuori una Smith & Wesson a tamburo, e la regola del cinema vuole che se c’è una pistola prima o poi sparerà.
Le canzoni e i numeri spettacolari di balletto ci sono tutti (per strada, in un grande magazzino, al commissariato, su assi malferme, in una scuola eccetera), e certo affiorano alla memoria melodie indimenticabili, riproposte nei decenni in mille salse. Purtroppo il doppiaggio non aiuta, perché brusco è il passaggio tra l’italiano parlato e l’inglese cantato, tuttavia “West Side Story” è una strenna natalizia e quindi non si può chiedere troppo. Ma Spielberg, insieme al suo sceneggiatore Tony Kushner, è davvero bravo nel far affiorare, senza forzare il modello di partenza, uno sguardo pessimista sul razzismo sistemico, direi quasi ineluttabile, sicché alla fine viene da pensare che i “caucasici” e i portoricani di allora non siano poi così diversi dai cosiddetti “white trash” e neri di oggi.
Nei ruoli principali, ci sono ora Ansel Egort, Rachel Zegler, Ariana DeBose, David Alvarez e Mike Faist, rispettivamente come Tony, Maria, Anita, Bernardo e Riff, mentre l’anziana Rita Moreno, che fu Anita sessant’anni fa, incarna l’unico personaggio inventato, la saggia negoziante portoricana Valentina. Tutti intonati: fisicamente e nel cantare. La prodigiosa fotografia di Janusz Kamiński, storico collaboratore di Spielberg, impacchetta il tutto in una luce “d’epoca” che non addolcisce contrasti e durezze ma sprizza colore vitale quando serve (consiglio di restare in sala per i titoli di coda, elaborati dallo stesso regista).
PS. L’amica cinefila Marzia Gandolfi ha fatto notare su Fb un dettaglio per palati fini: il film si chiude sull’insegna di un locale chiamato “Mac Mahon”, come il tempio parigino consacrato negli anni Cinquanta alla commedia musicale e ai vecchi film americani proibiti durante l’occupazione nazista.
Michele Anselmi