L’angolo di Michele Anselmi

D’accordo: nel western si può piazzare di tutto o quasi, le variazioni sul tema sono infinite, ma poi conta la qualità, diciamo pure la sostanza delle storie, la forza degli attori, la potenza delle ambientazioni. Siccome il genere è sempre meno praticato al cinema ormai bisogna cercarlo sulle piattaforme digitali; così ieri, senza pregiudizio alcuno, o forse un po’ sì, ho voluto fare un rapido confronto tra le prime due puntate di due serie tv cominciate quasi contemporaneamente: “1923” di Taylor Sheridan su Paramount + e “Django. New Babylon” di Francesca Comencini su Sky Atlantic.
L’una, americana girata nel Montana, è il seguito di “1883” e il prequel, come s’usa dire, di “Yellowstone” (il 1° marzo arriverà la quinta stagione sempre con Kevin Costner su Sky); l’altra, italo-francese girata in Romania, è ispirata liberamente al film di Sergio Corbucci che nel 1966 rivelò Franco Nero e poi originò il “Django Unchained” di Quentin Tarantino. Due modi, diciamo, di intendere il western e rappresentare quel mondo selvaggio e brutale: non ci vuole molto a capire quale io preferisca tra le due proposte. Nel caso poteste, nel senso degli abbonamenti, provate anche voi a fare la prova e magari, se vi va, fatemi sapere.
Considerando l’anno piazzato nel titolo, “1923” è a suo modo un western moderno, ma con gli ingredienti classici. Certo, è arrivata l’elettricità, si vedono le automobili, le strade delle città sono asfaltate, ma per lo stagionatore allevatore Jacob Dutton è come se fossimo ancora nel secolo precedente, a partire dal Winchester e dal cinturone. Nel suo ranch, chiamato già “Yellowstone”, vive come un patriarca che si sporca le mani in sella coi suoi cowboy per radunare le mandrie. Lui è incarnato da un Harrison Ford che non fa nulla per nascondere l’età, mentre sua moglie Cara ha la voce, la grinta e le rughe di Helen Mirren, donna inglese che arrivò nel Montana dalla vecchia Europa.
La faccio breve per non rivelare troppo. Dutton ha un problema serio con un gruppo di pastori irlandesi e scozzesi: le greggi di ovini pascolano dove non dovrebbero, manca l’erba per le vacche smagrite, le locuste hanno fatto il resto, sicché prima o poi ci sarà da sparare e da impiccare qualcuno. E intanto il nipote/figliastro prediletto John Duttor Sr, cioè James Badge Dale, fa il cacciatore a pagamento in Africa, sfidando ogni giorno la morte con leoni, giaguari e iene, sempre ossessionato dagli incubi della Prima guerra mondiale. C’è anche dell’altro in “1923”, e cioè la sistematica violenza “educativa” esercitata dalle scuole cattoliche, nate in mezzo al nulla e gestite da suore e preti con metodi ributtanti, nei confronti delle ragazze indiane prelevate dalle riserve.
Tutto si tiene, in “1923”, e immagino che prima o poi le diverse storie, lambite dalla Storia, confluiranno in una sola, nel proseguo degli otto episodi scritti da Taylor Sheridan e diretti da Ben Richardson.
Poco si tiene, invece, in “Django. New Babylon”, la serie in dieci puntate sotto la supervisione di Francesca Comencini (ci sono altri due registi coinvolti) e coprodotta da Cattleya. Va benissimo la Romania, anche “Ritorno a Cold Mountain”, “Hatfields & McCoys” e “I fratelli Sisters” sono stati girati da quelle parti, dove si risparmia, ma è il tono generale, tutto esornativo e citazionista, che non convince, o almeno non convince me.
Siamo nel 1872, a “New Babylon”, una cittadina all’insegna dell’Utopia post Guerra Civile fondata in un largo cratere da un ex schiavo, John Ellis, e dalla sua futura moglie Sarah, giovane levatrice zoppa. Qui arriva Django, cappellone sugli occhi, abiti laceri, barba e capelli lunghi, e subito si produce, per soldi, in una sfida tipo “Fight Club” con un pugile considerato invincibile.
Perché quell’uomo torvo e taciturno, forse un pistolero, è arrivato fin lì? Perché crede di aver ritrovato in Sarah l’unica sopravvissuta della sua famiglia un tempo felice. Ma “New Babylon”, rifugio per ex schiavi, derelitti e irregolari, fatica ad andare avanti, manca il cibo, il fango è dappertutto; e soprattutto una fanatica bigotta, di giorno ricca donna stimata e di notte “giustiziera” con maschera, Colt 45 e spolverino, ha dichiarato guerra proprio a quella “peccaminosa” comunità.
Scritta da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, la serie omaggia il primo “Django” con la scena della cassa da morto trascinata con una corda, allestisce parecchi flashback sulla vita da “trapper” del protagonista, introduce ante-litteram un personaggio transgender e gioca con gli abiti fantasiosi e le suggestioni di un western invernale, livido, assai lutulento, molto allegorico nelle intenzioni. Purtroppo resta un “cappellone”, come diceva il rimpianto Tullio Kezich: un po’ carnevalata, un po’ vorrei ma non posso.
Neanche un attore versatile come il belga Matthias Schoenaerts può più di tanto, almeno per quanto visto finora, nei panni cenciosi di Django, mentre gli altri ruoli sono coperti da Lisa Vicari, Nicholas Pinnock e Noomi Rapace, più una pattuglia di italiani tra i quali Manuel Agnelli, Vinicio Marchioni, Thomas Trabacchi e naturalmente Franco Nero in partecipazione speciale. Consiglio di vederlo in inglese coi sottotitoli, se proprio interessa l’oggetto.

Michele Anselmi