Alle prime luci del mattino, una ragazza si sveglia nel suo letto, ma capiamo subito che qualcosa non va: ha del sangue in mezzo alle cosce, sembra stordita. Si apre con questa immagine “Women talking – Il diritto di scegliere”, il nuovo film della regista canadese Sarah Polley, che ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale. Il film è tratto dal romanzo “Donne che parlano” di Miriam Toews, a sua volta liberamente ispirato alle vicende accadute nella colonia Manitoba in Bolivia. Ad una prima occhiata, sembra essere ambientato in un passato remoto, ma non è così. Siamo nel 2010, ed è il piccolo mondo diegetico ad essere rimasto fermo nel tempo, distaccato dal resto della società. La vicenda si svolge infatti all’interno di una comunità di mennoniti, religiosi che vivono senza tecnologia né elettricità, come fossero nel 1500. Qui avvengono fatti terribili: durante la notte, gli uomini della comune sedano le donne e ne abusano sessualmente. Al loro risveglio, le sfortunate non ricordano nulla, ma, come la ragazza che apre il film, portano i segni delle violenze subite. Nessuna è esclusa da questo trattamento, che subiscono da tutta la vita. Quando il gruppo degli stupratori viene momentaneamente arrestato (perché le leggi del mondo esterno non sono le stesse della comunità) un gruppo di donne decide di riunirsi per discutere su come cambiare la loro condizione. Ben presto, l’interrogativo diventa uno solo: rimanere e combattere, o scappare? Qui emerge la diversità di punti di vista delle dirette interessate e, come da titolo, le donne parlano per la prima volta, per esprimere ed argomentare la loro opinione. Ognuna di loro ha un diverso temperamento, e reagisce in modo unico ai traumi subiti. Si va così dalla combattiva Salomè (Claire Foy) che vuole rompere il sistema dall’interno, a Mariche (Jessie Buckley) decisa a scappare, particolarmente terrorizzata dal marito, fino ad arrivare alla più anziana Greta (Sheila McCarthy) più orientata al perdono, in nome dei suoi valori cristiani. È un film ricco di dialoghi, in cui ogni possibilità di azione è analizzata nei minimi dettagli, perché distruggere un sistema che va avanti da secoli non è cosa da poco. Nonostante però la crudezza di quello che accade, la regista ci presenta la storia in modo delicato. Lo vediamo a partire dalla fotografia, dai toni spenti e neutri, ma soprattutto nella scelta di non mostrare mai le violenze mentre avvengono, ma solo le loro conseguenze, fisiche e psicologiche, sulle protagoniste della storia. Al centro ci sono solo le donne: gli stupratori non rubano mai loro la scena, e vengono al massimo inquadrati di sfuggita. L’unico personaggio maschile, positivo poiché esterno alle logiche della colonia, è uno spettatore silenzioso della loro lunga riunione, che si limita a trascriverla per conservarne la memoria. Donne coraggiose, che arriveranno infine ad una condivisa decisione finale, la più adatta a salvare sé stesse e le generazioni future.
Martina Genovese