Realizzare fisicamente un film è un’impresa lunga e difficile, che richiede grande intuito, senso estetico e un gruppo di maestranze esperte e altamente specializzate. Quando tutti questi ingredienti sono miscelati in modo corretto, il risultato può essere ottimo. Va da sé che la figura del regista sia la più importante, dal momento che suo è il compito di dirigere i lavori sul set, mettendo in immagini il fondamento ideologico della pellicola. Xavier Dolan, giovanissimo cineasta canadese, ha dimostrato di saper egregiamente dirigere (oltre che interpretare) lungometraggi interessanti ed arditi sotto non pochi punti di vista.
In questo intervento si cercherà di sottolineare non tanto (o non solo) la sua parabola artistica, ma di mettere in evidenza quali sono i motivi che rendono Dolan una delle figure di spicco delle nuove generazioni di cineasti. Anche solo il fatto di essere nato nel 1989 e di avere alle spalle una carriera poliedrica e importante nel mondo del cinema la dice lunga sul talento di un uomo che ha diretto il suo primo film (J’ai tué ma mère) a soli vent’anni di età.
La profondità estetica dei film di Dolan non si potrebbe spiegare senza fare riferimento a un bagaglio culturale assolutamente inusuale presso molti registi anche meno giovani, che sembra emergere spontaneamente e senza forzature dal tessuto visibile delle sue pellicole, dall’uso sapiente dei nessi di montaggio e da altre scelte registiche sempre particolarmente felici (ad esempio l’utilizzo quasi ossessivo di Bang bang nella versione italiana incisa da Dalida nel film Les amours imaginaries). Una cultura cinematografica alta – evidentemente basata – su reminiscenze del grande cinema anche italiano risulta essere la base strutturale su cui si poggia un edificio di immagini profondamente contemporanee, a tratti simili a una versione contemporanea dei film undergound-allucinogeni anni Ottanta.
In tutto questo Dolan inserisce, continuamente, ma senza nessuna forzatura, la tematica omosessuale. Presenza costante, vero e proprio filo conduttore della sua produzione, l’argomento LGBT diventa per Dolan non un (ormai piuttosto sterile) modo per far valere i propri diritti, ma una scelta estetica, il filtro attraverso cui un regista che muove con sicurezza i primi passi nel mondo del cinema sceglie di guardare e raccontare – montandolo in immagini – il mondo. È qualcosa di simile a quanto ha scelto di fare Gus Van Sant, che nella sua fase indipendente ha utilizzato la lente del giovane omosessuale per raccontarci una delle più oscure (in senso cromatico e morale) storie d’amore della storia del cinema, nel troppo sottovalutato Mala Noche.
Quello che lega il giovane canadese al regista dell’Oregon, più in profondità, è un atteggiamento conoscitivo e finalistico nei confronti dell’operazione cinematografica: in questi suoi primi lungometraggi, Dolan sembra voler tracciare una nuova mitografia dell’immaginario contemporaneo attraverso gli occhi di un neo-flâneur che raccolga il testimone di Van Sant e di molti altri, per raggiungere nuovi risultati. Se analizziamo l’opera di Dolan più in generale si può in effetti notare come il suo scopo sia probabilmente quello (in questa fase) di comporre una fenomenologia dell’esperienza relazionale nella contemporaneità, passando attraverso il superamento di un Edipo violento, origine di ogni conflitto (J’ai tué ma mère), per perdersi poi nel complesso gioco da “tragedia degli equivoci” di Les amours imaginaries, fino ad arrivare alla problematica metamorfosi di Laurence nel film che gli è valso la consacrazione all’ultimo festival del cinema di Cannes (Laurence Anyways).
Giuseppe Previtali