Il 26 novembre 2010 è una data che ha cambiato per sempre la vita degli abitanti di un piccolo paesino in provincia di Bergamo ed è proprio qui che prende il via “Yara”. Il docufilm, realizzato da Netflix con la regia di Marco Tullio Giordana e rilasciato il 5 novembre, racconta una delle storie più tristi e drammatiche degli ultimi anni con un unico obiettivo: ricostruire la discussa indagine che ha portato all’identificazione di Ignoto 1 e, di conseguenza, dell’assassino della giovane.
È sempre particolarmente complicato portare al cinema o, come in questo caso in tv, storie vere come questa di Yara Gambirasio, tredicenne di Brembate di Sopra, e il motivo è molto semplice: raccontare questa tipologie di storie è destinato ad apparire fuori sincro e crea delle discronie che feriscono come lame dei coltelli che si urtano con un gemito acuto.
Il regista, Marco Tullio Giordana, lo rende chiaro fin dai primi minuti: tutto prende il via con il ritrovamento del cadavere della giovane per poi, con un abile flashback, mostrarci Yara nei suoi ultimi istanti prima della scomparsa. Lei in famiglia, il tragitto dalla palestra a casa, il furgone bianco che le si avvicina, la neve che cade e, in pochi minuti, tutto cambia e si rompe per sempre.
Nel docufilm sono molti i momenti in cui lo spettatore viene trasportato in un tornado di emozioni dolorose: il ritrovamento del corpo e, in particolare, il momento in cui la PM Letizia Ruggeri – interpretata magistralmente da Isabella Ragonese – comunica il decesso della piccola alla famiglia Gambirasio: ed è proprio in quel momento che tutto diventa particolarmente complicato e incentrato su un unico obiettivo, ovvero, identificare l’assassino di Yara.
Il valore aggiunto del docufilm di Giordana è senza alcun dubbio la PM Ruggeri, da una parte la professionista che vuole risolvere il caso, dall’altra la donna, una madre che sente sulla pelle e nel cuore il dramma dei genitori di Yara come se fosse il suo. Il regista decide di entrare in casa Ruggeri indagando le paure della donna che – abbandonate le vesti di PM, riesce a spogliarsi della corazza della divisa – coincidono perfettamente con quelle dello spettatore e di chi, in quei giorni, sentiva la tensione della post sparizione.
In “Yara” si mescolano quindi tensione amorosa e affettiva di chi ha l’esigenza di ritrovare la giovane e scoprire la verità che si cela dietro alla sua sparizione e, dall’altra parte, ci mostra la conduzione meticolosa delle indagini basate sullo studio dei fatti e con numerosi colpi di testa della PM che riesce, dopo lunghe ed estenuanti ricerche, ad incastrare Bossetti.
Nonostante le ottime premesse, però, il docufilm “Yara” risulta essere un’opera piatta che si basa principalmente su due aspetti fondamentali: la storia, nota al grande pubblico, che inevitabilmente incuriosisce lo spettatore, e la grandissima, per non dire magistrale, interpretazione di Alessio Boni, nei panni del Colonnello Vitale, e della giovane Chiara Bono, che abilmente riesce a calarsi nei panni di Yara. Il docufilm, in cui la parola d’ordine è rispetto, risulta quindi fin troppo asciutto e didascalico, ma senz’altro dà la possibilità allo spettatore di scoprire – tassello dopo tassello – il caso di Yara Gambirasio.
Flavia Arcangeli